Prigionieri della Terra

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Camelia.
view post Posted on 12/6/2014, 17:53




Puntualmente in ritardo, arriva il mio incitamento a continuare la storia :)
 
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Astry
view post Posted on 26/6/2014, 12:33




Ciao, avevo smesso di pubblicare. Essendo sparita anche la mia unica lettrice (Tu :) ) mi sono un po' demotivata, ma ho comunque diversi capitoli già scritti da sistemare e non ho intenzione di abbandonare la storia, so già come andrà a finire. Approfitterò delle vacanze estive per rimettermi in pari. Promesso!
 
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Camelia.
view post Posted on 27/6/2014, 09:14




Eh, abbi pazienza, un paio di visitine al giorno in questo forum le faccio sempre, ma per leggere una cosa lunga mi ci vuole la giusta concentrazione e il giusto tempo.

Anche io ho una ff in sospeso da mesi (e un paio semi-iniziate) e vorrei davvero completarla, ma sono in un periodo delicato, mi sto ricostruendo una vita lavorativa in questo periodo e purtroppo/per fortuna ho la testa altrove.

Ciao! :)
 
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Astry
view post Posted on 2/8/2014, 20:49




Dopo un periodo di crisi, provo a riprendere in mano questa storia. Soprattutto visto che fuori continua a piovere.

Cap. 19


Ormai era aggrappato a quel maledetto ponte da ore, sospeso a 800 piedi d’altezza.
Dopo che l’acqua di Nun aveva fatto crollare la grotta, il cavalcavia si era riempito di guardie e curiosi. Dalla sua posizione Ranuccio non riusciva a vedere niente, poteva solo sentire il chiacchiericcio agitato dei soldati e lo scalpiccìo dei loro sandali sulla strada sopra di lui. Per vedere qualcosa avrebbe dovuto sporgersi dal parapetto, ma era rischioso. Aveva già visto a sufficienza: aveva visto Amauròs cadere a terra colpito dalla magia di Gounias, l’aveva visto mentre veniva trascinato via, ma non era riuscito a capire se fosse vivo o morto.
Poco dopo altre guardie avevano attraversato il ponte conducendo Guglielmo in catene, le aveva seguite con lo sguardo, spiando da una fessura della balaustra.
Per un attimo aveva creduto che il suo amico lo avesse abbandonato, ma il suo tentativo di fuga non aveva possibilità di successo, era solo un modo per allontanare i soldati dal ponte e indurli a credere che non ci fosse nessun altro. Dopotutto il capo dei ribelli doveva aver capito che Amauròs non li avrebbe traditi, e infatti nessuno si era ancora accorto del ragazzo nascosto sotto il ponte e ora lui non poteva far altro che attendere, immobile e silenzioso.
All’inizio era stato persino facile restare attaccato alla parete come la più insolita delle cariatidi: una minuscola statua di marmo nero incastonata nella gigantesca arcata del ponte, e completamente invisibile in quella superficie frastagliata. Tuttavia, se in quel primo momento era stata la paura ad immobilizzarlo, ora restare in quella posizione cominciava a pesargli. Aveva i muscoli così intorpiditi che non riusciva più a rendersi conto se, a tenerlo inchiodato alla roccia, fosse la forza delle sue braccia o se fosse davvero diventato un tutt’uno con la pietra. Le dita erano infilate in una fessura tanto stretta da bloccargli la circolazione, mentre con le gambe si puntellava spingendosi verso l’alto o, almeno, credeva di farlo: avendo ormai perso la sensibilità non poteva dirlo con certezza. Più volte fu tentato di mollare la presa, non ce la faceva più: voleva solo poter rilassare i muscoli, riuscire a piegare le ginocchia; gli sembrava, in quel momento, la cosa più desiderabile del mondo. Persino cadere nel vuoto, gli parve un’alternativa accettabile a quel supplizio.
Perché il sole ci metteva così tanto a spegnersi? Solo col buio avrebbe potuto arrischiarsi a scavalcare il parapetto, sempre che le guardie avessero smesso il loro andirivieni. La città del sole sembrava risplendere come non mai, irrorando della sua luce verde il paesaggio sotterraneo fino dove si riusciva a vedere. Fu il giorno più lungo della sua vita.
Quando finalmente l’astro artificiale venne occultato, Ranuccio decise che poteva arrischiarsi a tornare in città. Provò a muovere una gamba e il formicolio che sentì lo rincuorò: era ancora in grado di comandare i propri muscoli. Sollevò una mano e si issò fino a raggiungere la cornice della balaustra. Ciò che vide, però, non fu affatto confortante: il ponte era ancora troppo affollato, le guardie di Lapidia avevano smesso di camminare e fare rumore, ma erano ancora lì; alcuni, addossati al parapetto con il capo chino, sonnecchiavano appoggiati a delle lunghe lance. Appoggiate in terra c’erano delle piccole lucerne che illuminavano la strada e i loro volti dal basso, facendoli somigliare a degli spettri. Altri soldati, invece, se ne stavano impettiti nel centro del ponte, con le gambe allargate e le lance incrociate a chiudere il passaggio. Non sarebbe mai potuto passare da lì: attraversare il ponte confondendosi con le centinaia di persone che lo percorrevano con carri e merci era stato facile, ma ora, con decine di guardie a caccia di ribelli, era impossibile tornare in città senza essere visto. L’unica alternativa che gli venne in mente lo fece rabbrividire: attraversare il ponte passando dal fianco esterno.
Ranuccio si morse il labbro e tornò ad infilarsi nella sua nicchia; le mani cercarono la sottile fessura alla quale si era aggrappato per ore, e le gambe ripresero la loro spinta. La sua mente iniziò a valutare ogni possibile conseguenza di quella folle idea, riuscendo però ad enumerare solo una serie di modi diversi di scivolare, perdere la presa e cadere nel vuoto.
Arrivare dall’altra parte usando gli appigli naturali della roccia in realtà non era impossibile, lui lo sapeva perché l’aveva già fatto.
Su entrambi i lati il ponte era costellato di fessure, nicchie, e fori di varie dimensioni; alcuni sufficienti a contenere una persona in piedi, altri piccoli e profondi, potevano essere usati come appoggio. L’immenso cavalcavia non era stato costruito in mattoni o blocchi di pietra bensì la lingua rocciosa che collegava Lapidia al ciglio della voragine era ciò che rimaneva di un antica pianura. La magia dei primi abitanti aveva fatto sprofondare il resto, creando l’enorme cratere dove vivevano gli schiavi, e lasciando intatta la parte centrale e pochi passaggi simili ad arcate gigantesche.
Abbarbicato nella sua nicchia, il ragazzo ripensò a quante volte aveva sfidato gli amici ad attraversare il ponte aggrappati alla sua sponda. Conosceva così bene ogni appiglio, e si era sempre vantato di essere in grado di superarlo ad occhi chiusi, tuttavia non avrebbe mai pensato di dover fare davvero quella traversata senza l’ausilio della vista. Ora che il sole era sparito, davanti a lui c’era solo una indefinita sagoma nera stagliata contro l’alone verde creato dalle lampade sulla strada. Al buio avrebbe dovuto affidarsi unicamente alla propria memoria per trovare gli appigli giusti, sempre che ci fossero ancora! Dall’ultima volta che aveva fatto quello stupido gioco diversi terremoti avevano scosso la città, era possibile che alcune parti del ponte si fossero sgretolate. Non avrebbe potuto saperlo finché non avesse tentato di arrivarci, ma di una cosa era certo: non sarebbe potuto rimanere per sempre in quella posizione, presto la forza lo avrebbe abbandonato e lui sarebbe caduto comunque.
Prese un profondo respiro e riportò alla mente il suo gioco; vide sé stesso, cinque anni prima, mentre, incitato dai suoi compagni, affrontava quella sfida.
Ricordò ogni fessura, ogni insidia di quel percorso, poi allungò la mano e cercò l’appiglio nel punto dove ricordava che fosse. Lo trovò: uno stretto buco, profondo e sdruccioloso. Spazzò via i detriti con le dita finché non sentì, sotto i polpastrelli, che l’incavo era sufficientemente sgombro per una presa sicura. Si abbandonò a quel sostegno, e intanto spostò anche il piede a cercare un appoggio. Doveva esserci uno spuntone in direzione del suo ginocchio, ne era certo, infatti trovò anche quello. Poi spostò la mano verso la rientranza successiva. Toccò la parete, sembrava completamente liscia, ma lui sapeva che doveva esserci un appiglio. Lo cercò poco più in alto, e infatti lo trovò e trovò anche il successivo. Poi individuò “l’orecchio”; anni prima aveva soprannominato così quella piccola protuberanza rocciosa a causa della sua forma insolita. Era così poco sporgente che per riconoscerla aveva dovuto carezzare la parete più volte col palmo aperto. In quel punto sapeva di doversi sostenere solo con la punta delle dita, non c’era spazio per afferrarsi con l’intera mano, ma lo superò senza difficoltà. Superò anche la “Ciotola” e “Dente di drago”, tutti nomi che lui e i suoi amici di arrampicate avevano dato a quelle rocce. Una mano, poi l’altra, poi un piede, finché non giunse dove sapeva che la parete si inclinava pericolosamente.
Fece per andare avanti ma si bloccò. Per superare quel tratto avrebbe dovuto abbandonare il sostegno sotto i propri piedi per procedere solo affidandosi alla forza delle braccia, ma quando fu sul punto di sollevarsi per poi lasciarsi dondolare nel vuoto, non ci riuscì.
Gli doleva ogni singolo muscolo, le braccia gli parevano pesantissime e le dita erano indolenzite; all’idea che la sua vita dovesse dipendere da arti che non sarebbero riusciti nemmeno a sollevare un libro, ebbe paura. E se nel momento in cui si fosse trovato sospeso, le mani avessero ceduto?
Fu colto da un improvviso senso di vertigine. Si accostò maggiormente alla parete, quasi abbracciandola, mentre le lacrime cominciarono a rigargli il volto. Prese a tremare, e fu quasi sul punto di mettersi a gridare perché qualcuno lo tirasse su. Era stanco; tentò ancora di sollevare la mano, ma una sensazione di freddo gli impedì di arrivare all’appiglio sopra la sua testa. Il terrore era simile ad un fiume che prese a scorrergli nelle vene, gli paralizzò il braccio per poi giungere al petto. Sentì artigli di ghiaccio comprimergli il cuore rendendolo pesante come un macigno gelato. Lo sentì schiacciargli lo stomaco e spingerlo in basso, verso il baratro. Non poteva andare avanti, era certo che sarebbe caduto! Poteva vedere se stesso precipitare: uno straccio scuro, sbrindellato, che diventava sempre più piccolo fino a perdersi nello sfondo dell’immensa pianura polverosa.
Poi sentì un urlo agghiacciante, lo riconobbe e capì: non era la sua voce, ma quella di Leones, era lui a cadere nella sua mente, nei suoi ricordi.
Aveva tentato per cinque anni di cancellare quell’immagine, fino ad illudersi di non averla mai vista realmente, ma ora gli sembrava quanto mai vivida e reale come se quegli anni non fossero mai passati.
Lui era lì, più giovane, più avventato. Era con i suoi amici, ragazzi altrettanto incoscienti, e quella era la “roccia maledetta”, così l’aveva soprannominata coi compagni di arrampicate. Era il tratto più difficile di tutta la traversata, una sfida, la ragione stessa del loro gioco; finché non era diventato il punto in cui Leones era caduto. Era sempre stato il migliore, era così veloce nel saltare da una fessura all’altra che sembrava non avere peso; finché perse la presa, sparendo inghiottito dalla polvere che aleggiava sempre sulla cava. Non ne avevano più parlato, nessuno sapeva di quel gioco, nessuno aveva mai saputo quanto fossero stati sconsiderati e nessuno aveva mai capito cosa fosse successo realmente a Leones. Non avevano più fatto quel gioco, dimenticandolo. Fino a quel momento.
Ranuccio sollevò lo sguardo: sopra di lui solo oscurità, come sotto, da entrambe le parti la morte era sicura. Sia che fosse precipitato, sia che lo avessero preso i soldati, per lui non ci sarebbe stato scampo. L’unica scelta che aveva era affrontare quel passaggio. Forse, dopotutto, doveva ringraziare la sua stupidità giovanile. Ora che la posta in gioco era molto più alta, l'aver già fatto quel percorso gli dava almeno una piccola speranza, e una ‘speranza’ era meglio di niente.
Tese di nuovo il braccio, le grida di Leones tornarono a rimbombargli nelle orecchie, impose a se stesso di non ascoltare. Un sottile filo di sudore freddo ruscellò dalla sua fronte scivolando fin sotto al mento. Nel momento in cui le dita toccarono la roccia sopra la sua testa, le urla cessarono. Chiuse gli occhi, comunque inutili, e si abbandonò a quel sostegno lasciandosi dondolare nel baratro. Lui non era Leones, lui non sarebbe caduto, prese a ripetere nella propria mente.
L’amico aveva sbagliato: aveva affrontato quel tratto con troppa superficialità; lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Ora doveva solo convincersi di poter far meglio. Ci voleva concentrazione, forza e prudenza. Leones non si aspettava di morire, lui sì e non avrebbe commesso l’errore di sottovalutare la pericolosità di quel percorso. Si sollevò per riuscire a tastare la parete con la mano libera, lasciando l’altro braccio a sorreggere tutto il suo peso. Trovò l’appiglio e, di nuovo, poté distribuire lo sforzo su entrambe le braccia. Poi cercò l’appoggio successivo, strinse i denti, e un flebile lamento sfuggì alle sue labbra quando, per l’ennesima volta, dovette sollevarsi con una sola mano. Andò avanti; ancora un braccio, poi l’altro, fin quando la parete tornò perpendicolare, e i piedi trovarono facilmente l’ampia cornice che correva lungo il resto dell’ultimo tratto.
Era fatta. Ranuccio si voltò e percorse quella parte del ponte con la schiena appoggiata alla roccia, fino ad arrivare sotto allo spiazzo che conduceva alle porte della città. Ansimava e i battiti del suo cuore erano diventati un frastuono assordante, ma lui era lì, ben saldo sull’ampia sporgenza, al sicuro. Ora non restava che scavalcare il parapetto e scivolare silenziosamente all’interno delle mura di Lapidia passando dietro gli uomini di guardia. Sgattaiolò davanti il gigantesco portale e sparì attraverso un’apertura laterale.
Una volta all’interno delle mura, si precipitò sui gradini scivolosi; una corsa forsennata, con ancora addosso il terrore che aveva provato sul ponte. Sentiva il bisogno di scendere, voleva arrivare prima possibile in fondo a quelle scale, in basso. Solo l’idea dell’altezza gli faceva girare la testa e sapeva che alla cava si sarebbe sentito meglio. L’immensa pianura, protetta su tutti i lati dal costone roccioso, riempì completamente i suoi pensieri dandogli sicurezza. Tuttavia, quando finalmente la raggiunse, si trovò di fronte una processione di uomini e donne che portavano lampade e picconi: si recavano alla grotta grande per aiutare nei soccorsi. Come un lampo gli tornò in mente ciò che era accaduto: l’ampolla, il crollo. D’improvviso le sue peripezie sul ponte gli sembrarono lontane mentre un nuovo terrore si impossessava di lui. Riprese a correre, superando tutti gli altri, e fermandosi solo davanti alla calca che si era formata all’ingresso della caverna. Minatori, soldati, persino alcuni Discendenti erano li a spostare massi, nel tentativo di trovare qualche superstite. Erano state accese diverse torce e lampade fatte di pietre magiche che diffondevano in tutta la zona l’inquietante luce verde. Il ragazzo fissò l’immensa montagna di detriti. Sapeva di essere stato lui a causarla e, nello stesso tempo, gli sembrava di trovarsi in un incubo. Avrebbe voluto che qualcuno lo svegliasse, ma quelle persone continuavano il loro frenetico andirivieni senza far troppo caso a lui.
Poi una voce superò tutte le altre. Una donna era salita su un carro, gesticolando e urlando, cercava di richiamare l’attenzione di tutti in un punto della grotta; era appena stato individuato qualcuno sepolto sotto i massi. Come un’onda i minatori si spostarono verso quel luogo per prestare aiuto. In quell’istante Ranuccio sentì le proprie gambe perdere ogni forza, come se gli avessero strappato le ossa lasciando solo l’involucro di carne. Si erano afflosciate e lui si era ritrovato seduto in terra. Rimase così, incapace di muoversi per diverso tempo. Le labbra spalancate erano diventate più rigide del cuoio secco, e non aveva più una goccia di saliva in bocca, nemmeno per riuscire ad articolare qualche parola. Avrebbe voluto gridare, unire la sua voce a quella degli uomini intorno a lui, incitare i soccorritori a far presto, ma la sua rimase una richiesta muta. Non riusciva ad urlare, non poteva nemmeno sussurrare, e quando dalla sua gola finalmente uscì un suono debole e raschiante, nessuno lo udì. I minatori si affannavano a scavare con le mani, qualcuno riuscì ad infilarsi nel varco che avevano creato. Ranuccio poteva sentirli mentre si incitavano a vicenda. C’era un corpo, così dicevano le voci che continuavano ad inseguirsi, ma era difficile da recuperare in fondo alla voragine. Un baratro che il ragazzo conosceva bene. Qualcuno poi si calò aggrappato a delle funi, riuscì a liberarlo dai detriti e a legarlo affinché gli altri potessero tirarlo su.
Ranuccio era ancora seduto, come paralizzato, quando il gruppo di minatori gli passò davanti sorreggendo una lettiga. Il corpo era coperto, chiunque fosse sdraiato in quella barella era morto.
Il giovane trovò la forza di aggrapparsi ai calzoni dell’uomo più vicino a lui. Non ricordava nemmeno se lo conoscesse.
“Chi è?” fu tutto quello che riuscì ad articolare.
“Ivetta.” fu la risposta secca dell'uomo; poi questi si allontanò con gli altri, lasciandolo accovacciato sui ciottoli, singhiozzante, e con le mani aggrappate ai capelli.
Una donna giovane poco dopo fu l’unica a notare la sua disperazione, gli posò una mano sulla spalla e si chinò su di lui. L’aveva riconosciuto e lui conosceva lei. Per un certo tempo si era invaghito di quella ragazza. Lucilla, così si chiamava, lo aiutò ad alzarsi.
“Eravate amici.” Disse. “So come ti senti.”
Lui si limitò ad annuire. No. Lei non poteva sapere cosa provava in quel momento, non poteva nemmeno lontanamente immaginare che era stato lui a provocare il crollo. Certo era stato Amauròs ad ordinargli di gettare l’ampolla, ma erano state le sue dita ad aprirsi lasciando scivolare l’acqua mortale su quella gente.
Si appoggiò a lei, ma quando si accorse che la ragazza lo stava accompagnando lontano dalla grotta, si sciolse dal suo abbraccio. Non poteva andar via finché non avesse saputo cosa veramente era accaduto all’interno, se ci fossero stati altri morti.
“No, voglio restare!” disse e lei, dopo avergli dedicato uno sguardo triste, si allontanò.
Rimase lì per il resto della notte e tutto il giorno successivo ma quello di Ivetta fu l’unico corpo recuperato. La voce di una possibile fuga degli schiavi stava cominciando a diffondersi fra i minatori. Qualcosa che i Discendenti e le guardie sapevano già, ma che avrebbero voluto tenere nascosto il più a lungo possibile. In effetti avrebbe fatto loro comodo trovare altri cadaveri per avvalorare la tesi dell’incidente mentre una sola vittima, e così tanti dispersi, alimentavano troppe chiacchiere.
Quando finalmente le ricerche furono interrotte, Ranuccio tornò alla sua casa sulla rupe come tutti gli altri. Aveva bisogno di riposo poiché, il mattino dopo, sarebbe andato a cercare Freda. Lei avrebbe potuto dargli notizie di Guglielmo e Amauròs e, come previsto nel piano iniziale, lo avrebbe aiutato a raggiungere gli altri nel luogo stabilito per l’appuntamento. Si trascinò fino al letto e vi crollò sopra ancora vestito, il volto affondato sul cuscino, il braccio destro ricadeva abbandonato fuori dal materasso.
Si addormentò così, in quella scomoda posizione, finché un rumore lo svegliò di soprassalto. Era così indolenzito che non riusciva a muoversi; rotolò giù dal letto, trascinando con sé il drappo lacero che fungeva da coperta, e lottò per divincolarsi dalla prigione di stoffa. Finalmente riuscì a mettersi in piedi. Strizzò più volte le palpebre, si portò le mani al volto e poi sui capelli, stava persino per prendersi a schiaffi nel tentativo di tornare lucido, ma non fu necessario: una voce lo riportò bruscamente alla realtà.
“Cos’hai fatto?” ruggì.
“Eliano?” farfugliò Ranuccio rivolgendosi al ragazzo in piedi davanti a lui, prima di vedere il pugno dell’altro puntare dritto verso il suo naso; e poi tutto divenne buio.
 
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