Prigionieri della Terra

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Astry
view post Posted on 16/11/2013, 00:07




PRIGIONIERI DELLA TERRA



Ebbene sì, l'ho fatto, ho tentato di scrivere un originale, anzi, sto tentando. Anche se, dopo tante storie su Severus, la mania di maltrattare i miei personaggi preferiti non l'ho persa. :cry:
E' un esperimento, spero di avere qualche parere, tanto per capire se devo continuare o rimettermi a scrivere ff :ph34r:

Autore: Astry.
Personaggi: Kore, Amauròs e vari abitanti di Lapidia
Rating: per tutti.
Avvertimenti: in corso.... chissà se mai la finirò?
Riassunto: Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo, e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.




Cap. 1 (Antefatto)


Il giovane Anedjib si guardò attorno: centinaia di persone, tutte quelle che lo avevano seguito nel suo folle viaggio, erano accalcate l’una contro l’altra nello stretto passaggio. S’udivano urla di bambini, uomini che incitavano a fare in fretta, lo scalpicciare dei calzari sulla pietra, e un odore nauseabondo di muffa misto a sudore e sporcizia gli pungeva le narici.
Il cunicolo era completamente buio: la luminescenza che rischiarava il mondo sotterraneo li aveva abbandonati non appena varcato l’ingresso della galleria.
“Ci siamo, ci siamo quasi!” gridò qualcuno con la voce rotta dall’affanno.
Era così, infatti: dopo giorni di cammino in un labirinto di gole, grotte popolate da creature mostruose, sconfinate pianure coperte di crosta lavica, quando ormai erano ridotti allo stremo, finalmente la speranza si era riaccesa.
Quello era il luogo dove, secondo i suoi calcoli, la Porta si sarebbe spalancata permettendo loro di raggiungere il mondo della luce. Anedjib li aveva guidati alla ricerca del mondo descritto nelle leggende e nei racconti di chi era giunto in quel luogo di tenebra attraversando la soglia magica, i pochi ai quali la grotta del sonno non aveva cancellato la memoria, il mondo che lui aveva sognato di vedere fin da bambino.
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo, e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
In quel punto la barriera che li separava dalla superficie era più debole ed era certo che sommando la sua energia con quella di suo fratello Ay e degli altri Discendenti sarebbe riuscito a spezzare l’antico sortilegio che li teneva prigionieri da generazioni.
Anedjib appoggiò la schiena alla parete di roccia cercando di regolare il respiro reso affannoso dalla lunga marcia.
La tunica bianca che indossava come tutti gli appartenenti al suo rango era strappata in più punti e i piedi scalzi erano coperti di piaghe.
Gli dolevano tutti i muscoli. Si guardò le mani: le unghie erano spezzate e la pelle era coperta di graffi.
Non era stato certo un viaggio facile. Per fortuna, nonostante i pericoli che avevano dovuto affrontare, se l’erano cavata, pur se con qualche ferita e molto spavento.
Era stata una pazzia portare con loro donne e bambini, ma come avrebbero potuto convincerli a rinunciare a quel viaggio e alla prospettiva di tornare a vivere alla luce del sole?
Piccoli rivoli di sangue continuavano a scivolargli dalle nocche mescolandosi con la sporcizia. Si pulì la mano sulla stoffa della tunica e sospirò, osservando un gruppo di bambini che si trascinava appoggiandosi al muro come avessero cento anni. Si fece forza drizzando le spalle doloranti, mentre cercava di immaginare quanto potessero essere stremati loro.
Non avevano potuto fermarsi, neppure per poche ore: i Segugi li avevano quasi raggiunti.
Anedjib sapeva che, se avessero fallito, sarebbero andati incontro ad una morte certa.
Attraversare la soglia era proibito. Quelli che avevano tentato non erano riusciti nell’impresa, e a nessuno di loro era stato permesso di sopravvivere e quindi di raccontare ciò che avevano visto attraverso la barriera, alimentando così la leggenda di un sole distruttivo, in grado di incenerire chiunque non fosse nato sotto i suoi raggi.
Il terrore di morire arsi dall’enorme sfera di fuoco, aveva tenuto prigioniero per secoli il popolo delle città sotterranee.
Le labbra del giovane stregone si piegarono in un sorriso quando una donna cercò di farsi largo tra la folla spintonandolo. Anche lei indossava la tunica bianca e aveva un bambino in braccio. Giunse a tentoni ad attirare l’attenzione di un uomo alto che teneva una torcia in mano.
Sentendosi afferrare lui, un altro Discendente, si voltò di scatto, e la luce tremolante gli illuminò il viso pallidissimo.
“Dammi il bambino!” gridò l’uomo, cercando di superare il frastuono della folla. “Dammelo, o finirete entrambi schiacciati.”
“Dov’è Kahel?” domandò apprensiva la donna, mentre i suoi occhi passavano in rassegna centinaia di volti che apparivano e sparivano illuminati dalle torce.
“Non lo so, era davanti a noi con sua moglie e il bambino. Dobbiamo proseguire, li ritroveremo all’uscita.”
Sì, si sarebbero ritrovai tutti all’uscita, e sarebbero stati tutti vivi. Pensò Anedjib fiducioso, con l’entusiasmo tipico della sua giovane età.
Era certo che chi aveva alimentato quelle paurose leggende doveva avere ben altre ragioni per non voler risalire in superficie che non una stupida superstizione. La legge spietata, che condannava all’oblio tutti coloro che dal mondo della luce finivano laggiù attraversando accidentalmente la soglia, e alla morte quelli che tentavano di nascondere ai segugi i figli del sole nella speranza di ricondurli al loro mondo, era solo frutto della paura. Forse gli Dei avevano sigillato le porte secoli prima intrappolando il suo popolo in un limbo oscuro, per timore dei figli della luce, quegli stessi uomini che secoli, millenni prima si erano inginocchiati davanti al loro potere?

La mano di Anedjib cercò quella della donna che gli stava accanto: una graziosa ragazza il cui abbigliamento stonava decisamente rispetto a quello degli altri.
Aveva una stretta gonna blu che le arrivava fin sotto al ginocchio, stivaletti di pelle nera e una camicetta bianca con il colletto di pizzo. I capelli biondi erano acconciati in uno chignon.
Vittoria era una figlia della luce, ed era la donna di cui si era innamorato e per la quale aveva deciso di intraprendere quel viaggio.
Anche lei era arrivata nel mondo sotterraneo varcando la soglia per caso, come altre centinaia di uomini e donne inconsapevoli e senza alcun potere, che si erano ritrovati, loro malgrado, nel sottosuolo, in balìa di un mondo ostile, bloccato nel tempo.
Anedjib era rimasto folgorato dalla sua forza, dalla sua volontà di tornare a casa.
Il desiderio di lei era diventato il suo, come se lui stesso non potesse più fare a meno del calore, della luce e dei colori di un mondo che riusciva solo immaginare.
Per lei si era unito a quel gruppo di uomini che cercavano di tornare alla superficie, li aveva aiutati con le proprie facoltà a trovare la porta e, entusiasta, aveva trascinato con sé anche suo fratello Ay e altri Discendenti che, come lui, desideravano vedere finalmente il sole.
Erano partiti portando con sé sogni e speranze.
Avevano rischiato tutto, rinunciato a famigliari e amici. Abbandonando anche molti figli della luce ai quali la grotta del sonno aveva strappato i ricordi: troppo pericoloso informarli del loro tentativo, il viaggio era già abbastanza rischioso senza doversi preoccupare di eventuali traditori e spie.
Le piccole dita di Vittoria tremavano. Lei abbozzò un sorriso incerto, sforzandosi di apparire coraggiosa.
“Ce la faremo, ormai siamo arrivati.” La rassicurò il mago.
Si morse il labbro, mentre un brivido gli percorreva la schiena: e se si fosse sbagliato? Se ad attenderli non ci fosse stata nessuna porta?
Anedjib scrollò il capo e decise di ignorare quel pensiero.
Sollevò lo sguardo; suo fratello Ay era poco più avanti. Aiutava una vecchia e un bimbo che lei chiamava Diego e che non doveva avere più di quattro anni. Forse era suo nipote. Anche lei era una figlia della luce, giunta lì vent’anni prima, o quaranta. Il bambino probabilmente era nato lì.
Era facile riconoscere i figli del sole: avevano una carnagione più scura rispetto a chi, come lui e Ay, apparteneva a quel mondo da molte generazioni. I loro volti erano, infatti, di un pallore quasi spettrale per non aver mai visto il sole. Nel suo caso il candore era reso ancor più evidente dalle pupille nere come la notte che creavano un insolito contrasto.
Anche i capelli erano scuri e lunghi, raccolti dietro la nuca da un laccio.
Suo fratello Ay era più basso, lui l’aveva sempre sbeffeggiato per questo. Aveva capelli corti e ricci, e una barba ben curata ne rendeva più affilato ed elegante il mento.
Dei due fratelli, il maggiore era quello che somigliava di più al loro padre, anche come temperamento: Ay era stato sempre quello più avventato.
Fino a quel momento, fino a quella follia.
Il giovane stregone rabbrividì al pensiero che, se avessero fallito, proprio il loro genitore sarebbe stato fra quelli chiamati ad emettere la condanna, e non avrebbe esitato a pronunciarla.
La loro famiglia sedeva nel Consiglio da generazioni; loro stessi, un domani, sarebbero stati chiamati a farne parte. Erano rimasti in pochi a conoscere i segreti dell’antica magia e quei pochi avevano il diritto di dominare sugli schiavi.
Ma lui non ambiva a governare in quel mondo di eterna notte dove solo i morti avrebbero dovuto stare. Anedjib voleva andarsene.
Forse non avrebbe mai rischiato una simile impresa se non fosse stato per Vittoria. Non avrebbe tradito la volontà dei Sapienti, per salvare gli abitanti di un mondo che non aveva mai visto, se lei non fosse entrata così prepotentemente nel suo cuore.
Ormai desiderava solo trascorrere la vita con la sua compagna in un mondo illuminato dal sole.
Si era unito agli schiavi e ai rivoltosi e li aveva guidati fin lì. Ora non restava che attraversare una soglia.
Anedjib si staccò dalla parete e riprese la marcia continuando a stringere la mano della donna che amava.
Poco distante un altro uomo urlò.
“Siamo giunti al passaggio, che l’astro ci illumini!”
Ci furono grida di esultanza, molti cominciarono persino a cantare.
Anedjib aiutò Vittoria a superare un dislivello del terreno, poi afferrandosi alla parete di roccia si issò per raggiungerla.
Davanti a loro si aprì uno spiazzo, il soffitto era basso e claustrofobico, e ben presto la folla che seguiva i due uomini si riversò in quello spazio, colmandolo come un onda di marea.
“Ed ora che facciamo?” domandò Vittoria.
Lui le prese la mano e se la portò alle labbra. “Guarda.” Rispose, con un sorriso carico di dolcezza.
La folla si divise, dal gruppo si staccarono una decina di uomini, indossavano tutti una tunica bianca e tutti erano ugualmente pallidi.
I Discendenti, compresi lui e Ay, si disposero in cerchio, appoggiati alle pareti. Il resto della folla rimase nel mezzo.
I Maghi sollevarono le braccia e, spalancando la bocca, iniziarono ad emettere un suono grave e prolungato.
Un’insolita brezza prese a soffiare nella grotta e corpi delle persone al centro iniziarono a perdere consistenza.
Anedjib guardò Vittoria e sentì il cuore balzargli nel petto. Non aveva mai provato una simile gioia.
“Il passaggio si apre.” Mormorò con voce rotta dall’emozione.
“Presto, tutti verso il centro, entrate nel passaggio.” gridò Ay e, prendendo per mano Vittoria, spinse anche lei verso il punto che aveva indicato.
La folla venne come risucchiata nel nulla. Uomini e donne continuavano a camminare verso il centro della caverna, ma lo spazio non si riempiva mai, sembravano attraversare un muro invisibile.
Anche Anedjib fu trascinato dalla marea umana e si ritrovò nel mezzo. Di fronte a lui stavano Vittoria e Ay. Anedjib lo guardò mentre con il braccio cercava di proteggere la ragazza dalla calca e gli sorrise, ma qualcosa nella sua espressione gli cancellò il sorriso dal volto, come una folata di vento avrebbe cancellato un’orma sulla sabbia.
“Ay!” gridò. “Ay, che vuoi fare?”
All’udire le sue grida, Vittoria si voltò verso Anedjib. Vide l’uomo di cui era innamorata tendere il braccio verso il fratello che, invece, aveva sollevato il suo stringendo in mano una pietra luminosa.
“Ay, no! Li ucciderai tutti.” Alle sue grida ormai si erano sommate quelle di altre cento persone. Nessuno aveva capito quello che stava per succedere, ma la disperazione nella voce della loro guida li aveva gettati nel panico.
“Ay, ti prego, sei mio fratello!” lo supplicò.
“Lei è mia.” Disse gelido l’altro e gettò al suolo la pietra che si frantumò in decine di schegge lucenti, uniche stelle in quel mondo senza cielo.
Le pareti della grotta furono scosse come da un terremoto. Un boato riempì le loro orecchie precipitandoli nell’orrore.
“Vittoria!” Il più giovane tra i due fratelli tese il braccio tentando di afferrare le dita che solo un istante prima aveva baciato e che ora, lo sapeva stava per perdere per sempre.
Suo fratello stava trascinando Vittoria via da lui. Verso la luce, verso il mondo che tutti loro avevano sognato di vedere.
Avevano studiato gli antichi libri, le leggende. Per anni avevano preparato la loro fuga, mentre l’amore per quella donna venuta dalla luce si fortificava. Lei era l’ispirazione, i suoi racconti, i suoi ricordi, li avevano portati a quel giorno.
Non poteva perderla, non voleva tornare al suo mondo di oscurità.
Il corpo della ragazza, di Ay e di tutti quelli che si trovavano all’interno del passaggio si allontanavano sempre più, mentre gli altri che non erano riusciti a raggiungere la soglia furono scaraventati indietro.
Folle d’amore Anedjib si gettò contro il fratello contrastando la forza che invece lo spingeva lontano. Si aggrappò alla sua tunica sperando di essere trascinato con lui dall’altra parte.
Sollevò lo sguardo e vide Vittoria e tutti quelli che avevano raggiunto l’uscita mentre venivano investiti da una luce accecante.
“Il sole, è il sole.” S’udì gridare.
Ma fu solo un istante, poi tutto tornò buio.
Ay si voltò, Vittoria era dietro di lui, la sua mano tesa cercava di afferrare quella di Anedjib, tuttavia non tentò di fermarla, il suo sguardo era stato attirato da quel raggio di sole immediatamente scomparso, e la sua espressione divenne feroce.
“Il passaggio si chiude.” Ruggì in preda al terrore. “Torniamo indietro! Dobbiamo tornare indietro!”
Afferrò Vittoria per un braccio e la spinse di nuovo verso il proprio fratello, ma la mano di lei non raggiunse mai quella tesa dell’altro, le sue dita divennero scure e rigide come roccia. Tutte le persone che si trovavano all’interno del passaggio e si erano accalcate dietro di lei subirono la stessa sorte. La soglia chiudendosi stava tramutando lo spazio in bilico fra i due mondi in pietra imprigionando la gente al suo interno.
“Noooo!” Il grido agghiacciato di Anedjib rimasto fuori si sommò al frastuono della grotta che aveva iniziato a franare.
Era paralizzato dall’orrore, gli occhi fissi sulle dita di lei. Era come se una colata di fango le avesse ricoperte e poi si fosse seccato rendendole rigide e screpolate.
Le urla degli scampati gli riempivano le orecchie.
Una donna era caduta in ginocchio davanti alla montagna di corpi tramutati in pietra, un enorme pilastro roccioso in cui erano ancora riconoscibili volti e mani tese. Come fossero lava fuoriuscita dalla bocca di un vulcano invisibile e immediatamente solidificata.
La povera disperata aveva le braccia allargate e continuava a ripetere una litania di nomi, come una macabra cantilena.
Anedjib la riconobbe, era la stessa che poco prima parlava di rivedere suo figlio all’uscita. Ora l’aveva trovato, lui, e anche il neonato e suo padre, erano tutti lì, parte di quel macabro monumento a perenne ricordo della sua follia.
Un’altra donna le si avvicinò, era molto più giovane, il suo bambino appena nato legato alla schiena. L’afferrò per le spalle.
“Non puoi fare più niente, sono morti, dobbiamo andare o moriremo anche noi.”
La sollevò quasi di peso, trascinandola con sé, mentre dal soffitto continuavano a piovere sassi e polvere. La folla si era accalcata all’ingresso dello stretto cunicolo che li aveva condotti fin li in cerca di un nuovo mondo. Si udiva gente che urlava, bambini che piangevano, qualcuno gridava il nome di un familiare sperando che non fosse fra quelli intrappolati nella pietra.
Intere famiglie erano state separate nella confusione.
Il giovane mago si alzò, incurante dei detriti che continuavano a cadergli accanto.
Camminò intorno al pilastro di corpi. In tutto quel rumore, una voce lo attirò.
Anedjib si asciugò gli occhi con la manica della tunica. La polvere mista alle lacrime aveva formato una poltiglia scura sulle sue guance che in parte si trasferì sulla stoffa lasciandogli sul viso un insolito disegno.
Tutt’intorno dalla roccia fuoriuscivano volti con le bocche spalancate, fissate nel loro ultimo grido disperato, e mani tese verso la salvezza che non avrebbero mai raggiunto.
Un paio di braccia sporgevano più delle altre, come se qualcuno avesse tentato di gettare qualcosa al di fuori di quella trappola mortale. Abbassò lo sguardo e riconobbe Diego, il bambino che aveva visto pochi istanti prima con sua nonna. Piangeva seduto in terra proprio ai piedi della donna che gli aveva salvato la vita.
Come un automa l’uomo si chinò e lo prese in braccio, stringendolo con più forza di quanto fosse necessaria mentre il soffitto della caverna continuava a franargli addosso.
Fino a quel momento non aveva nemmeno tentato di ripararsi in qualche modo. Solo per pura casualità due grossi massi non lo avevano schiacciato, eppure lui sembrava non essersene neppure accorto.
Appena il bambino si aggrappò spaventato al suo collo, istintivamente Anedjib lo avvolse col braccio e si piegò in avanti per proteggerlo, ma non si unì al fiume di uomini che correva verso l’esterno.
Rivolse ancora uno sguardo ai volti incastonati nella roccia, osservò una ad una quelle pietre fatte di carne e intrise di sangue che non avrebbe dovuto essere versato, chiedendosi perché improvvisamente non provava più nulla, né odio per ciò che suo fratello aveva fatto, né colpa, rimorso per la sua follia e la sua presunzione.
Era come se anche il suo cuore fosse stato pietrificato nel passaggio, lasciandolo vuoto, privo del dolore, della paura e persino della pur minima volontà di reagire.
Non c’era più nulla per cui lottare, nessuna porta da raggiungere. Vittoria non c’era più. Si era fidata di lui ed ora era morta.
Se non avesse avuto in braccio il piccolo Diego che continuava a piangere, si sarebbe semplicemente lasciato colpire dai massi che continuavano a piovergli intorno rischiando di seppellirlo in quella grotta assieme alla donna che amava.
Ma la paura e la volontà di vivere della creatura innocente, che continuava ad aggrapparsi disperato al suo collo, lo indirizzò verso l’uscita, anche se sapeva che non ci sarebbe stata salvezza per loro lì fuori.
Di certo anche gli altri ne erano consapevoli, ma l’istinto, il terrore di restare sepolti nella grotta era più forte della ragione e li aveva spinti forse verso una morte peggiore.
Le pareti del cunicolo continuavano ad oscillare tanto che più volte Anedjib si ritrovò scaraventato contro la pietra.
Le grida degli uomini davanti a lui si facevano sempre più distanti ed ora il rombo del terremoto le attutiva quasi completamente. Poi la terra smise di tremare e le grida, al contrario, si fecero più acute.
Le sue braccia si strinsero ancora di più attorno al bambino che ora aveva smesso di piangere.
Era ormai all’imboccatura del cunicolo, la polvere dei crolli in un primo momento gli impedì di vedere ciò che stava succedendo all’esterno.
Poi i suoi timori divennero certezze: i segugi li avevano raggiunti e, con loro, c’era un esercito di uomini chiusi in armature simili a corazze di animali che in quel mondo potevano solo immaginare, ricoperte di scaglie e ornate con corna e teschi di metallo.
La gente terrorizzata uscendo dalla caverna era finita proprio tra le braccia dei soldati.
Fu una mattanza. I figli del sole furono i primi ad essere uccisi, gli altri, catturati, avrebbero seguito la stessa sorte dopo un ridicolo processo.
Impietrito di fronte a quella scena, Anedjib non tentò nemmeno di salvarsi. Le ginocchia si piegarono e lui cadde a terra. Il piccolo Diego sempre aggrappato al suo collo, pareva spaventato più dalla confusione che dalla consapevolezza di ciò che stava accadendo.
Anedjib chiuse gli occhi e restò in attesa che qualcuno lo colpisse. Sentiva i tonfi dei corpi che, accanto a lui, cadevano uno dopo l’altro. Molti non avevano neppure il tempo di urlare.
Poi qualcosa di caldo gli imbrattò la guancia.
Anedjib guardò in basso: occhi celesti lo fissavano, come schegge di vetro incastonate in quello che solo lontanamente ricordava un volto umano, un volto femminile. La lama aveva inciso un profondo taglio all’altezza del naso, prima che un secondo colpo più preciso recidesse dal corpo la testa intera.
Un conato di vomito risalì la gola del mago. D’istinto il suo sguardo si posò sulla forma indefinita li accanto, così somigliante ad un cumulo di panni scuri. Il corpo si era accasciato su se stesso, mentre il mantello che la donna indossava, gonfiandosi durante la caduta, si era allargato nascondendone pietoso il cadavere.
Anedjib la riconobbe: era la giovane che portava il neonato sulle spalle, ma il bambino non c’era.
Non fece in tempo a domandarsi dove fosse che una mano rude gli strappò dalle braccia il piccolo Diego e altri due uomini lo rimisero in piedi con altrettanta grossolanità.
Lui non aprì bocca, non disse una sola parola. Avrebbe voluto urlare, pregarli di non fare del male al bambino, ma sentiva che se lo avesse fatto, loro glielo avrebbero ucciso davanti agli occhi.
Seguì con lo sguardo l’uomo che l’aveva portato via, lo osservò mentre lo consegnava ad una donna. Il pensiero che l’avrebbero risparmiato gli riempì la mente e gli gonfiò il cuore. Gli sembrò di galleggiare in un sogno. Vittoria, il tradimento di suo fratello, tutti quei morti. Per un attimo furono sostituiti da un unico pensiero: Diego, chiunque fosse quel bambino, sarebbe sopravvissuto. Solo quello gli importava. Doveva aggrapparsi a qualcosa, una ragione che giustificasse il fatto che il suo corpo continuava a respirare e che il cuore continuava a martellargli nel petto quando avrebbe solo voluto strapparlo via.
Lasciò che i soldati lo incatenassero e li seguì assente. Era pronto ad affrontare la sua punizione. Era pronto a raggiungere la sua Vittoria.

Edited by Astry - 18/11/2013, 15:43
 
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Astry
view post Posted on 18/11/2013, 15:42




Cap. 2

Da più di un’ora, il mago teneva il braccio teso con il palmo della mano rivolto in basso, sopra il pozzo di pietra.
La stanza dove si trovava era fiocamente illuminata, ma la fonte emanava una strana luce verde, e il liquido all’interno si increspava come fosse accarezzato da una leggera brezza.
Eppure lì non c’erano finestre, nessuna apertura dalla quale potesse filtrare il ben che minimo alito di vento.
Il pozzo si trovava al centro di un ambiente circolare scavato nella roccia. Le pareti erano scolpite e formavano una sorta di merletto, con colonne sottili che si arrampicavano come radici di un albero secolare, fino ad incontrarsi nel mezzo del soffitto dove si intrecciavano a formare un bellissimo, ma inquietante arabesco. Tutt’intorno alle pareti c’erano teche, scaffali colmi di libri e contenitori di vetro dalle forme bizzarre.
L’uomo, che si faceva chiamare Amauròs, aveva i muscoli intorpiditi e una smorfia di dolore gli deformava i lineamenti del volto pallido.
Accanto a lui, il vecchio servitore si sporgeva dal bordo della vasca fissando lo specchio d’acqua. Era piccolo e magro, il viso rugoso di un colore olivastro era incorniciato da una ricca cascata di capelli bianchi ondulati e da una barba altrettanto folta dello stesso colore.
Era vestito con una semplice tunica grigia alla quale aveva abbinato un improbabile gilè di lana verde. Se ne stava sollevato sulla punta dei piedi e scrutava con trepidazione il riflesso della mano dell’altro, in attesa di riconoscere, nelle increspature della superficie liquida, un segno, un minimo cambiamento nella forma o nel colore, ma non c’era nulla.
Durante tutto il tempo, l’unico movimento era dato dal tremore del braccio teso dell’altro che si faceva sempre più marcato a causa della stanchezza.
“Non c’è niente qui, padrone. Devi riposarti.” gli disse, infine.
Amauròs era più giovane. Nonostante i lineamenti spigolosi e i capelli bianchi, lisci e lunghi fino alle spalle, il suo volto non dimostrava più di quarant’anni. Indossava una tunica dello stesso tono dei suoi capelli, tessuta in modo grezzo.
Nell’udire le parole dell’altro, abbassò il braccio. Ma gli occhi continuarono a fissare il vuoto davanti a lui.
“Sta per arrivare, lo so.” disse cupo.
“I tempi sono maturi, la soglia si riaprirà molto presto, questo lo sanno tutti.” ribatté il servo.
L’uomo più giovane si voltò, ma il suo sguardo scivolò al di sopra della fronte rugosa del suo interlocutore. Le iridi scurissime erano gelide e immobili, come perle nere che parevano incastonate in un volto scolpito nell’avorio.
Era cieco, ma non dalla nascita. I suoi occhi, dimentichi della loro menomazione, continuavano a rincorrere obbedienti ogni suono, come fossero in grado di individuarne l’origine, per poi tornare a perdersi nel loro universo buio.
“La fonte non parla con me da molto tempo, ormai, ma so per certo che questa volta sarà diverso: sta per succedere qualcosa.” Mormorò, poi stese il braccio, e l’altro lo afferrò guidandolo sulla propria spalla.
Amauròs rispose con un semplice cenno di approvazione.
“Voglio che tu sia là quando arriverà.” Il suo non era un ordine, ma quasi una supplica.
L’altro annuì, mentre lo accompagnava verso una piccola porta di ferro decorata.
Improvvisamente un rumore attirò l’attenzione dei due.
Il vecchio servitore si sciolse dalla presa del suo signore e, dopo averne accompagnato il braccio fino al sostegno più vicino, lo lasciò e uscì di corsa.
Solo pochi istanti dopo si udirono delle urla e un rumore di cocci rotti.
“Vieni qui brutto ladro, vieni che ti insegno io a non rubare!” Gridò il vecchio.
Immediatamente la porta si spalancò e un ragazzo smilzo infagottato in una tunica nera troppo larga per lui, si precipitò all’interno della stanza circolare, bloccandosi non appena si rese conto che non c’erano altre uscite oltre quella dalla quale era venuto.
Si voltò ansimante e solo allora notò l’altro che era nel locale appoggiato alla parete.
Sentendosi in trappola non trovò di meglio che afferrare tutto ciò che gli stava a tiro: oggetti di vetro, vasi, strani congegni di metallo, e lanciarli verso gli uomini che si trovavano tra lui e la salvezza.
Il vecchio imprecò riparandosi alla meglio dietro il pilastro che sorreggeva l’arco della piccola porticina. L’altro invece non si mosse, neppure quando un voluminoso oggetto sferico volò a pochi centimetri dalla sua testa per schiantarsi contro la parete e spaccarsi in una pioggia di schegge impazzite.
Nonostante le urla del servitore, gli insulti disperati dell’incauto ladro e il rumore degli oggetti che continuavano a volare per la stanza cozzando contro le pietre, una voce profonda rimbombò nella camera come un tuono, superando ogni altro suono.
“Basta!”
Amauròs aveva sollevato entrambe le braccia.
Seguì un grido terrorizzato e il ragazzo fu scagliato all’indietro. Incespicò e, muovendo freneticamente le braccia, tentò di non perdere l’equilibrio, ma fu inutile. Il suo piede andò ad urtare lo scalino che circondava la fonte magica e, con un tonfo, si ritrovò a sguazzare nel liquido luminoso che fino ad allora nessuno aveva mai avuto l’impudenza neppure di sfiorare.
“Sciagurato!” abbaiò l’uomo anziano, mentre si precipitava ad afferrarlo per tirarlo fuori dal pozzo sacro e da quella imbarazzante situazione.
Anche il mago si avvicinò. Si appoggiò al bordo della vasca e tese il braccio affinché il ragazzo potesse afferrarlo. Tuttavia, nonostante il bacino non fosse profondo, tirarlo fuori si rivelò più complicato del previsto. Il malcapitato continuava ad annaspare e a bere. Lo strano liquido sembrava volerlo risucchiare, e più volte si ritrovò schiacciato sul fondo, come se una strana forza lo trattenesse. Aggrappandosi disperatamente ai bordi, riuscì ad afferrare la mano tesa di Amauròs che, essendo più alto, fu il primo a raggiungerlo. Non appena quello sentì le dita gelate e gocciolanti sfiorare le sue, le strinse con forza e si gettò all’indietro trascinandolo con sé.
Entrambi si ritrovarono sul pavimento, prigionieri di un intricato miscuglio di stoffa fradicia. Il servitore che era rimasto appoggiato alla vasca, si voltò e corse verso il padrone che serviva fin da quando aveva imparato a camminare. Artigliò il ladruncolo e, con poco garbo, lo sollevò liberando l’altro da quella fastidiosa zavorra. Mentre Amauròs si rimetteva in piedi, scrollandosi di dosso ciò che sembrava una melma luminescente, il ragazzo, che invece era stato lanciato di peso e fatto rotolare nel pavimento, era rimasto immobile, con le braccia allargate come una bambola di pezza e gli occhi spalancati fissi al soffitto.
In un primo momento il vecchio non lo notò, era troppo preoccupato di rimettere in piedi il suo signore, ma poi quel corpo inerte gli gelò il sangue.
“Padrone!” gemette, mentre portava l’indice della sua mano ad indicare la scena che l’altro non avrebbe mai potuto vedere.
“Cosa c’è, che succede?” domandò il più giovane tendendo le braccia verso il servitore.
“L’ho ammazzato, l’ho ammazzato, io… oh Dei! ” farfugliò, poi si gettò a terra e prese a scuotere il ragazzo.
“Ehi tu! Rispondi! Ehi, svegliati, dimmi qualcosa!” continuò.
Amauròs lo raggiunse e si chinò a sua volta. Le mani corsero a cercare il volto del giovane a terra, ma, appena lo sfiorarono, dalla gola di quest’ultimo uscì un suono terribile, simile all’ululato del vento nelle gallerie.
Il più vecchio rabbrividì e si trascinò incespicando nei suoi stessi piedi, fino ad appoggiarsi alla parete, tentando di mettere più distanza possibile fra lui e ciò che sembrava una stregoneria.
Il mago invece, si rimise in piedi, prese un profondo respiro e allargò le braccia tenendo i palmi delle mani aperte e rivolte verso l’alto.
“Parlami, sono qui, sono pronto ad udire la tua voce o Sacra Fonte del tempo!” disse con enfasi.
Subito il ragazzo si sollevò da terra come mosso da fili invisibili e nuovamente dalla sua gola uscì l’orrendo suono, questa volta mescolato a qualcosa di più definito simile ad un susseguirsi di vocali che man mano diventarono un vero e proprio insieme di parole.
“Trema, atterrisci, uomo! I tuoi occhi ciechi vedranno i tortuosi sentieri del futuro”.
Per nulla turbato Amauròs continuò.
“Rivelati a me,” lo esortò sollevando ancora di più le braccia, “Io non ho paura!” disse con decisione.
Il giovane ladro fu scosso da un tremito. Come uno brandello di carne tra le fauci di un animale, fu scrollato violentemente e poi gettato in avanti tanto che il suo viso venne a trovarsi a meno di un palmo da quello dell’altro.
“Il terrore ti troverà.” sibilò. Le labbra si mossero in maniera innaturale, come se dita fatte di vento ne avessero afferrato i margini tendendoli fino quasi a strapparli dal volto per poi allentare di nuovo la presa.
“Non ascoltarlo, padrone!” gridò il vecchio accucciato in un angolo. “Non ascoltarlo, ti prego!”
Ma l’altro restò immobile, con le braccia sempre allargate.
“La bestia dell’odio divora la madre, guai a colui che la colpa strappò alla luce!” Soffiò ancora il ragazzo.
“Chi è la madre? Dimmelo!” Amauròs l’afferrò con entrambe le braccia e prese a scuoterlo. “Parla ancora, dimmi chi è la madre!”
“L’oscurità fugga da colei che nutrì al seno lo strumento della sua vendetta. Perché quando la figlia perduta sarà baciata dall’astro, il buio conoscerà la sua ultima alba.”
dalla bocca spalancata uscì ancora un alito sibilante.
Il ragazzo cadde a terra come una marionetta inanimata.
Dopo il primo momento d’incertezza, quello che l’aveva interrogato si chinò su di lui e di nuovo ne cercò il volto con le lunghe dita.
Trovò i suoi occhi aperti, poi le palpebre gli scivolarono sotto i polpastrelli, sbattendo più volte.
Stava tornando in sé. Il mago si ritrasse permettendogli di sollevarsi un po’ facendo leva sui gomiti.
Anche l’anziano servitore si avvicinò e aiutò il ragazzo a mettersi seduto.
“Che mi è successo?” pigolò il ladruncolo, fissando spaventato i due uomini.
“Come sarebbe, che ti è successo?” sbottò il vecchio, “Hai blaterato una marea di…” Spalancò gli occhi. “Un momento, ma io ti conosco. Ti ho visto alla cava, tu…” lo afferrò al collo con rabbia. “Tu eri con Guglielmo. E’ lui che ti ha mandato?”
“Certo che lo ha mandato Guglielmo.” intervenne Amauròs con un tono gelido. Poi rivolse al ragazzo un’espressione carica di disgusto. “Se il tuo amico ti ha mandato per scoprire dove e quando si aprirà la Soglia, potrai accontentarlo.”
“Ma padrone, pensi che sia saggio informarlo?” chiese il servitore.
“Oh, non è più un segreto, ormai. I segugi sono in giro da giorni. Stanno perlustrando il labirinto ad Est delle Tre Sorelle.”
Si chinò fissando il buio che lo divideva dal suo interlocutore come se potesse perforarlo.
“Digli di andare ad Est. Fra una settimana.” Sussurrò, mentre le labbra si piegavano in un sorriso malevolo. “Ora vattene!” ordinò.
Il ragazzo non se lo fece ripetere, saltò in piedi e si precipitò verso la porta.
Ci fu un lungo silenzio, poi la voce incerta del più anziano distolse l’altro dai pensieri cupi dai quali era stato risucchiato.
“Cosa credi che racconterà a Guglielmo? Quello non era certo un buon presagio.”
“Non credo che ricorderà ciò che gli è accaduto. In ogni caso, quelle parole risulteranno oscure per lui, come per Guglielmo.” gli rispose il padrone e, portandosi la mano alla fronte, sospirò stanco.
“E per te?” domandò il vecchio, preoccupato.
Ancora silenzio, poi l’uomo cieco fece qualche passo finché la sua mano tesa non giunse a sfiorare lo sportello di una teca, l’aprì e poggiò delicatamente il palmo su un voluminoso tomo all’interno.
Lo afferrò, era molto antico, la rilegatura quasi del tutto distrutta e le pagine fragilissime sembravano restare insieme trattenute solo dalla volontà dell’uomo.
Un forte odore di polvere e muffa gli riempì le narici, ed egli lo assaporò come fosse un pregiato profumo.
“Conosci la leggenda?” mormorò, mentre le dita continuavano ad accarezzare la copertina di pelle cesellata, seguendone i preziosi disegni.
“Qualcuno, una donna arriverà dalla soglia e riuscirà a tornare indietro.” Si voltò portandosi il libro al petto e stringendolo come una madre che culla il proprio figlio.
“Non è mai accaduto, in centinaia di anni, ma questa volta…”
“Credi che quella che la fonte ha chiamato ‘Figlia perduta’, sia la stessa di cui parlano gli antichi scritti?”
“Forse. Lo sapremo molto presto.” Tornò a riporre il prezioso volume. “Fra sette giorni.”
“Tu vuoi che Guglielmo impedisca ai segugi di prenderla, è per questo che gli hai rivelato il posto?”
“Non so chi arriverà, e non so se sarà un bene o un male che sia trovata da Guglielmo. Di sicuro non sarebbe un bene se finisse nelle mani dei segugi…” Strinse i pugni con rabbia. “… e del consiglio”.
“Andrò là come hai chiesto, padrone, e se sarà necessario aiuterò Guglielmo a fare in modo che non venga presa.” Chinò il capo in segno di rispetto. “Puoi fidarti di me.”
“Non l’ho sempre fatto, Diego?” rispose il mago uscendo dalla stanza.
 
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Astry
view post Posted on 25/11/2013, 21:02




Mmm! Nessuno legge, ma io posto lo stesso, tanto o lo metto qui o lo tengo nel mio computer.



Cap 3

Quella vecchia pendola aveva un aspetto terribile. Le labbra di Kore si piegarono in una smorfia, immaginando quanto lavoro avrebbe richiesto restaurarla. Si domandò chi mai avrebbe pagato per una simile anticaglia. Il negozio ne era pieno; ferraglia arrugginita e mobili di legno che il lavorio dei tarli aveva reso simili a delicati merletti, si innalzavano fino al soffitto. Una catasta polverosa che, agli occhi della ragazza, serviva solo a dar riparo ai ragni.
Kore Johnson se ne stava seduta sopra il bancone ciondolando svogliatamente le gambe, mentre il suo sguardo vagava pigro nella stanza.
Il ciuffo di capelli biondi, risultato dell’ultima performance del suo parrucchiere preferito, continuava a caderle davanti ai grandi occhi verdi, costringendola, di tanto in tanto, a scuotere il capo per scansarlo.
Si trovava a Napoli da pochi giorni e la maggior parte del tempo l’aveva trascorso tra la polvere del negozio di antiquariato dello zio Giuseppe.
Sua madre, Luisa, aveva sposato un archeologo inglese e aveva lasciato la città sedici anni prima per trasferirsi in Inghilterra dove era nata lei e, dopo quattro anni, suo fratello Fabian.
Quell’estate, il padre dei due ragazzi era dovuto tornare in Italia per sovrintendere a degli scavi e Kore, sua madre e Fabian ne avevano approfittato per trascorrere le vacanze dai nonni materni. Due simpatici vecchietti chiacchieroni che però si rifiutavano di vedere la differenza tra una mummia egizia e la paccottiglia ammuffita stipata nel negozio del loro figlio maggiore.
Kore sbuffò rumorosamente, quando un rumore di cocci rotti la raggiunse.
Fabian sembrava condividere le opinioni dei nonni e trovava affascinante quel mucchio di immondizia polveroso. Erano più di due ore che rovistava nel magazzino del negozio lanciando un urletto entusiasta ad ogni nuova scoperta: un vecchio trenino elettrico, una lampada dalla forma bizzarra, qualche libro dalle pagine ingiallite.
La giovane si limitava ad osservarlo da lontano, mentre, incoraggiato dallo zio, perdeva il suo tempo in quell’insolita caccia al tesoro.
D’un tratto l’uomo lasciò che Fabian continuasse da solo le sue ricerche e si avvicinò al bancone. Era stempiato, sui cinquant’anni, infagottato in una giacca troppo pesante per quel clima. Aveva un sorriso sempre stampato sul volto paffuto e lineamenti tanto marcati da farlo somigliare ad una delle caricature con cui gli artisti di strada tappezzavano il marciapiede davanti al negozio.
“Ehi, ma perché non esci a comprarti una pizza? Ci penso io a Fabian.” Disse notando l’espressione annoiata della ragazza.
“No, preferisco aspettarlo. Si è fatto tardi, la nonna ci starà aspettando per la cena.”
L’appartamento della nonna si trovava proprio sopra al negozio, ma, conoscendone le abitudini, Kore sapeva che non poteva permettersi di non presentarsi a cena in perfetto orario. Per la donna era sacra, e non erano ammessi ritardi. Oltretutto se non avesse mangiato tutto, lei lo avrebbe considerato un insulto alla sua cucina. Avrebbe gridato allo scandalo, criticando le abitudini dei giovani moderni. Insomma rovinarsi l’appetito con una pizza, prima del luculliano banchetto preparato dalla regina dei fornelli, non era proprio consigliabile.
Saltò agilmente dal ripiano del bancone e si sporse dalla porta del magazzino.
Fabian era in ginocchio a ficcanasare sotto una catasta di cassetti che lo nascondevano alla sua vista.
“Spero che non avrai intenzione di portarti dietro quella robaccia in casa.” borbottò.
“Andiamo Kore, lascia che si diverta, non sta facendo niente di male, e poi mi ha aiutato a trovare cose che nemmeno ricordavo di avere.” La voce del proprietario del negozio aveva un suono dolce e amabile.
“Non dovresti tenere qui tutta quella roba inutile, zio, la gente non la comprerà mai e crea solo disordine.” lo rimproverò Kore.
“Ma piace a mio nipote. Lui ha naso per queste cose, è figlio di un archeologo, dopotutto.” gongolò, poi trattenne il fiato per abbottonarsi la giacca troppo stretta per lui, mentre sul suo volto si allargava un sorriso orgoglioso.
“Anch’io lo sono, ma un inutile ferro vecchio lo considero solo come un inutile ferro vecchio.” rispose Kore infastidita.
“Ah, queste giovani di oggi!” sospirò. “Non sapete apprezzare le piccole cose.”
La prese per mano trascinandola verso il magazzino. “Vieni, vieni che ti mostro una cosa.”
“No, ma dove mi porti? Sono allergica alla polvere, lo sai.” protestò la ragazza. “Eh, la polvere… Non siamo forse fatti di polvere?” ghignò continuando a trascinarla.
Fabian nel vedere i due che si avvicinavano, posò il carillon che aveva appena trovato sotto un mucchio di vecchie bambole di pezza, e sollevò la testa fissandoli con curiosità.
L’uomo si fermò di fronte ad un armadio. “Ecco guardate qui.” disse afferrando il pesante mobile e trascinandolo verso di sé.
Fabian saltò in piedi e si precipitò a guardare dietro l’armadio, mentre Kore incrociava le braccia con l’aria di chi si sta chiedendo chi fosse più infantile fra zio e nipote.
“Andiamo, su, avvicinati, non ci sono ragni.” Continuò. Poi, notando qualcosa muoversi tra le fessure dei mattoni, “Beh, forse qualcuno c’è, ma non ti faranno niente”.
Il volto di Kore si deformò in una maschera disgustata, mentre istintivamente si sollevava sulla punta dei piedi, come se volesse limitare il più possibile il contatto con il pavimento, temendo di trovarsi qualche insetto sgradito sulle scarpe.
Tuttavia la curiosità ebbe la meglio e non poté fare a meno di tendere il collo abbastanza per dare una sbirciatina al muro dietro l’armadio.
C’era un grosso buco, sufficiente per il passaggio di una persona alla volta.
“C’è una galleria qui dietro.” disse l’uomo entusiasta. “Napoli ne è piena. Sotto la superficie la città è un colabrodo.” sogghignò. “Tuo padre dovrebbe saperlo. Gli antichi abitanti hanno scavato qui sotto per procurarsi il materiale da costruzione, il… come si chiama?” Schioccò le dita più volte cercando di ricordare il termine esatto. “Ma sì, quello, il tufo. Se volete, potete dare un’occhiata.”
Kore arricciò le labbra scettica e l’altro, incrociando le braccia, scosse il capo sconfortato. “Ehi, ma che razza di nipote ingrata sei? Vi faccio risparmiare persino i soldi del biglietto. Sapete quanto fanno pagare la visita guidata delle gallerie? L’ingresso per i turisti è in Piazza S. Gaetano.” Kore continuava a fissarlo con aria di commiserazione, mentre lui tentava in tutti i modi di attirare il suo interesse.
“Beh, insomma, questo passaggio s’interrompe dopo pochi metri, ma tanto vista una, le gallerie son tutte uguali, e noi ce l’abbiamo sotto casa, cosa volete di più?”
“Dai Kore andiamo a vedere.” Fabian prese per mano la sorella e cercò di trascinarla verso l’apertura.
“Ma è sicuro?” mugolò lei, trattenendolo. “Non è che ci cadrà qualcosa in testa?”
“Ma no, questa sta in piedi da centinaia di anni, perché dovrebbe cadere proprio sulla tua testa?” la rassicurò suo zio. “I nonni si sono riparati qui, in tempo di guerra. Ehm… Ed io… beh, io ci tenevo il vino.” Poi si chinò e portandosi la mano davanti alla bocca, sussurrò all’orecchio della ragazza. “Ci sono un sacco di leggende su questi tunnel, dicono che della gente è sparita qua sotto e non è stata più ritrovata.”
“Wow!” Fabian non si fece pregare e saltò all’interno dell’apertura. “Kore, dai, muoviti!” gridò, gustando poi l’eco della sua voce.
Lo zio rise di gusto.
“Sì certo, adesso vedrai che uscirà fuori anche un fantasma.” brontolò la ragazza.
“No, niente fantasmi, ma potresti trovarci ‘o Munaciello.” Continuò a ridere lo zio. “Sbuca fuori all’improvviso, UUUUH!” agitò le braccia imitando degli artigli. “L’hanno visto, sai? E’ tutto vestito di nero, sembra un monaco, e…”
“Sì, sì, conosco la leggenda, la nonna me l’ha raccontata.” disse Kore, mentre, seguendo gli altri due, si infilava nello stretto cunicolo. “Ma è buio pesto qui dentro.”
“Ah, giusto! Aspettate qui che prendo una torcia.” L’uomo uscì, e si sporse verso l’armadio. Aprì lo sportello con un pugno ben assestato e prese la torcia elettrica che era sul ripiano interno. “Vediamo. Le pile dovrebbero essere ancora buone.” disse rigirandosi l’oggetto fra le mani, per cercare l’interruttore. “Oh, sì, ecco.” L’accese e raggiunse gli altri all’interno della cavità.
Le pareti erano umide e coperte di incrostazioni.
Di fronte a loro, una scaletta ripida scavata nella roccia portava ad un locale più ampio molti metri più in basso. Un forte odore di muffa li investì.
Fabian non aveva neppure atteso che suo zio gli illuminasse il percorso, si era precipitato sui ripidi scalini, e ora attendeva gli altri nella stanza sotterranea.
Kore, invece, scendeva lentamente. Permise a suo zio di oltrepassarla con la torcia per poter controllare bene la superficie della pietra prima di poggiarci sopra le mani.
Quando fu certa che non brulicasse di insetti, si afferrò ad una sporgenza e infilò anche lei la ripida scala raggiungendo gli altri due.
“E adesso?” domandò, scuotendo l’orlo della gonna per ripulirlo da alcuni fili di ragnatele che, nonostante le sue precauzioni, si erano caparbiamente incollati alla stoffa.
Sollevò lo sguardo, ma non c’era nessuno.
“Zio!” lo chiamò poi guardò di fronte a sé, nel punto in cui un istante prima aveva visto anche suo fratello. Erano entrambi scomparsi.
Continuò a cercare con lo sguardo. C’era luce, i due con la torcia non dovevano essere lontani.
“Andiamo, Fabian! Zio! Non fate stupidi scherzi! Sapete che non mi piace.” Sentì l’ansia crescere in lei. “Zio, avanti, basta!” protestò.
Fece qualche passo verso la luce, ma le sue gambe avevano cominciato a tremare. Fu costretta a fermarsi. “Zio!” mugolò. “Zio, per favore!”
Non ottenne risposta, probabilmente, anche se ci fosse stata, non l’avrebbe sentita. Il suo cuore impazzito le rimbombava nella testa, impedendole di ascoltare qualsiasi altro suono.
Poi la luce tremò, come se qualcuno ci fosse passato davanti proiettando la propria ombra nel tunnel. Spinta dalla paura prese a correre in quella direzione, ma, improvvisamente si sentì afferrare e trascinare in un angolo.
Tentò di gridare, ma chi l’aveva presa le portò una mano sulle labbra impedendole di parlare.
“Zitta!” le intimò una voce maschile.
Non era quella di suo zio, era una voce giovane, la voce di un ragazzo. Kore si sentì perduta, chi c’era in quella galleria? Un ladro, un assassino? E cosa era successo a suo fratello?
Mentre lo sconosciuto la spingeva con forza contro la parete, immobilizzandola, si sentì morire. Come se, improvvisamente, non fosse più stata padrona del suo corpo, non aveva più forza. La nausea la soffocava, mentre le lacrime presero a rigarle il volto. Scivolavano incontrollate frenate solo dalla mano sconosciuta che le premeva le labbra.
L’uomo la lasciò e, afferrandola per le spalle, la costrinse a voltarsi e a guardarlo negli occhi.
Era completamente vestito di nero e portava un cappuccio simile a quello dei monaci che lasciava intravvedere il volto pallidissimo. Le tornarono in mente le parole di suo zio ‘Potresti incontrare o’ monaciello’.
Era lui? Ma poi che cos’era? Un fantasma?
“Non gridare, o prenderanno anche te.” sussurrò.
Kore scosse il capo. Cosa voleva dire ‘prenderanno anche te’? Qualcuno aveva preso suo fratello?
“Fabian?” pigolò.
Il giovane abbassò il capo, sembrava sconfortato.
“Non posso più fare niente per lui, mi dispiace.”
Le parole dello sconosciuto le restituirono la forza di reagire. L’idea che potesse essere successo qualcosa al fratello la scosse. L’uomo se ne accorse e, prima che potesse mettersi a gridare, la sua mano corse nuovamente ad impedirglielo. Kore tentò di divincolarsi. Si sentiva soffocare. L’odore di muffa e di umidità le riempiva le narici. L’uomo, i suoi vestiti, la mano fredda sulle sue labbra, parevano esserne intrisi. Come se quello strano personaggio fosse un tutt’uno con quell’ambiente umido e insalubre.
Riuscì faticosamente a staccarsi dalla parete, il tanto per riuscire a muovere una gamba. Ne approfittò per tentare di liberarsi.
“Ahi! Ma sei matta?” Il giovane si afferrò il ginocchio sforzandosi di non urlare di dolore. “Smettila di tirare calci, non voglio farti del male.” soffiò a denti stretti.
“Lasciami, lasciami.” La ragazza iniziò a gesticolare, a colpirlo coi pugni e a graffiarlo, tanto che lui fu costretto ad afferrarla per i polsi.
“Ora basta! Finiscila di agitarti e ti spiegherò tutto.”
Appena la sentì rilassarsi, allentò di nuovo la presa.
Kore ansimò massaggiandosi il braccio, nel punto in cui lui l’aveva stretta.
“Non voglio spiegazioni, voglio uscire di qui.” ringhiò.
“Non credo di poterti accontentare.” disse secco, poi sollevò di scatto lo sguardo attirato da un rumore di passi.
Anche Kore fissò in silenzio il fondo della galleria.
Qualcosa o qualcuno si stava avvicinando a loro.
“Fabian?” mugolò, ma immediatamente il ragazzo scosse il capo. Il suo volto si era fatto teso. Era paura quella che si leggeva nei suoi lineamenti?
Kore non capiva cosa stesse succedendo, ma d’istinto si tirò indietro, appoggiandosi alla parete e il ragazzo fece lo stesso.
A proteggerli solo una lieve sporgenza nella roccia. Troppo poco per nasconderli entrambi.
Kore appoggiò il capo alla pietra, ansimando.
Sentì il rumore dei passi farsi più forte e il suo sguardo corse a cercare quello dell’altro. Non sapeva ancora se fidarsi di lui o no, ma era certa di non voler incontrare ciò che si stava avvicinando e che pareva terrorizzare il giovane al suo fianco.
Da dove si trovavano non si riusciva a vedere, ma dalle voci gracchianti che si udivano, Kore capì che doveva trattarsi di donne, piuttosto anziane almeno a giudicare dal terribile rantolo che emettevano. Anche il rumore dei passi rivelava un’andatura incerta e zoppicante.
Ma come era possibile che delle vecchie potessero essere tanto pericolose? E poi cosa ci facevano in quel sotterraneo?
Fissò il ragazzo e vide che scuoteva il capo e tremava.
“E’ finita, stavolta ci trovano.” borbottava. “E adesso che faccio? Che faccio?” Continuò quasi piagnucolando.
D’improvviso, però, i passi si allontanarono come se qualcosa avesse attirato il gruppo altrove.
Il giovane si sporse dal suo nascondiglio e guardò stupito la fine del tunnel.
Poi si rivolse a Kore.
“Non so cosa sia successo, ma puoi ringraziare la buona sorte, siamo salvi.”
La afferrò per un braccio.
“Ora vieni con me e non fare storie. Qui non possiamo restare.”
Lei lo guardò per diversi secondi senza parlare, poi lo seguì rassegnata.
 
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Astry
view post Posted on 1/12/2013, 21:21




Cap. 4

Imboccarono un’altra galleria, diversa dalle prime. Il passaggio era stretto, ma molto alto, tanto che non si riusciva a vederne il soffitto. Solo in quel momento, Kore si rese conto che non c’era alcuna fonte di luce, non una torcia, né candele, eppure il luogo era sufficientemente illuminato da una strana luminescenza verde che permetteva loro di avanzare con facilità.
“La luce…” mormorò. “Da dove viene?”
“Come ‘da dove viene’? E’ giorno, c’è il sole.”
“Ma…” Kore stava per ricordargli che si trovavano molti metri sotto terra, ma preferì non contraddirlo. Non le interessava la luce o chi fosse quell’uomo, non le interessava nulla di quello che aveva da dire. Voleva rivedere suo fratello. Tuttavia era sola in quel luogo, e lui era l’unico che poteva dirle qualcosa di Fabian.
Scesero altri gradini, incontrando molte gallerie. Sembrava una fitta rete di vicoli così stretti da poter essere percorse solo in fila indiana. Era come passare tra le mura di case altissime, tanto alte da raggiungere il cielo, nascondendolo alla vista.
Kore camminava in silenzio, guardandosi attorno intimorita, mentre lui la precedeva.
Il rumore dei loro passi echeggiava sinistro nei cunicoli, così Kore iniziò a camminare in punta di piedi, tendendo l’orecchio e cercando di captare altri suoni che non fossero quelli prodotti dalle sue scarpe.
Dopo aver marciato per circa mezzora, si aprì davanti a loro un’immensa gola. Le pareti del cunicolo che avevano percorso si allargavano formando un imbuto. Tutt’intorno era roccia, massicci imponenti che invece di stagliarsi contro il cielo, si allargavano chiudendosi sopra le loro teste. Era come guardare le montagne capovolte, Kore immaginò una mano gigantesca mentre le conficcava nel terreno a mo di cunei.
“Quelle sono le tre sorelle.” disse la sua guida indicando tre di quei massi che chiudevano la vallata, formando quattro archi.
Impiegarono diverse ore per raggiungerli e per tutta la strada il ragazzo continuò a guardarsi le spalle preoccupato.
Attraversato l’arco più grande il ragazzo si appoggiò alla parete tirando un sospiro di sollievo.
“Ora saremo al sicuro.” disse. “Da qui in poi le rocce ci proteggeranno, sarà difficile trovarci.”
Kore si guardò attorno. In effetti la sua guida aveva ragione: avevano superato una vallata, uno spazio aperto nel quale era impossibile nascondersi, ed ora, di fronte a loro si intrecciavano miriadi di passaggi seminascosti da spuntoni di roccia dalle forme bizzarre simili a merletti inamidati o, piuttosto, a gigantesche spugne di mare.
“Bene, ora che, a quanto pare abbiamo seminato i nostri inseguitori, chiunque fossero. Vuoi dirmi, per cortesia, dove mi stai portando?” domandò Kore con una smorfia, mentre incrociava le braccia in segno di sfida. Era intenzionata a non fare un altro passo senza avere prima una spiegazione.
Ma l’altro si limitò ad un’alzata di spalle.
“Avrai tutte le spiegazioni che ti servono quando arriveremo dove ti sto portando...” schioccò la lingua. “Anzi, se arriveremo dove ti sto portando.” si corresse.
“Tu… Tu sei pazzo! Io non mi muoverò di qui.” urlò lei. “Ci stiamo allontanando sempre più dal negozio di mio zio, non ho intenzione di andare oltre.”
“Il negozio di tuo zio?” il giovane scoppiò in una risata sguaiata. “D’accordo, se non vuoi venire, resta pure qui, o torna indietro, se ti fa piacere. Non ho certo intenzione di trascinarti, né di portarti sulle spalle.”
Si incamminò infilandosi in una stretta apertura della roccia che aveva di fronte.
Kore non si mosse, restò a guardarlo per alcuni minuti, finché non lo perse di vista.
Attese ancora, sperando che sarebbe tornato indietro, ma il ragazzo non lo fece.
Cominciò a muovere i piedi spostando il peso del corpo da uno all’altro, poi iniziò a giocherellare nervosamente con le mani, torcendosi le dita, e infine iniziò a mordersi il labbro.
L’aveva lasciata sola.
Si sentì gelare. Era come se fosse precipitata in un incubo. Ma nonostante continuasse a ripetere a se stessa che tutto quello non poteva essere reale, la paura ebbe il sopravvento. Il cuore martellava nel suo petto, come impazzito, e il respiro le si bloccò in gola. Avrebbe voluto urlare, si portò le mani tra i capelli e prese a tirarli, voleva svegliarsi, doveva svegliarsi. Forse qualcuno avrebbe udito le sue grida nel sonno, forse il dolore che si stava procurando l’avrebbe riportata alla realtà. Ma non accadde nulla di tutto ciò. Prese a guardarsi intorno: il ragazzo, doveva trovare il ragazzo,
Si precipitò verso il punto in cui l’aveva visto sparire dietro uno spuntone di roccia.
“Aspettami!” gridò, mentre le lacrime le riempivano gli occhi.
“Vedo che sai anche essere ragionevole.” Il volto allegro della sua guida spuntò proprio dietro di lei. “Con un po’ di incoraggiamento, naturalmente.” ghignò.
Non si era allontanato che di pochi passi, facendole credere di averla abbandonata.
Kore si voltò di scatto, avrebbe voluto sommergerlo di imprecazioni, ma decise che non era saggio insultare l’unica persona che poteva tirarla fuori da quella situazione. Se quello era un sogno, forse doveva assecondarlo, ma se non lo era?
Riprese a seguirlo in silenzio.
Camminarono ancora per diverse ore. Kore era sfinita. Si erano dovuti fermare più volte. Le scarpe all’ultima moda della ragazza non erano adatte a quel percorso accidentato e i suoi piedi si erano coperti di dolorose vesciche. Aveva provato a rimediare fasciandoli con delle striscioline di stoffa che l’altro aveva ricavato ritagliandole dal bordo della sua tunica, ma anche questa soluzione durò poco. Con la fasciatura, infatti, le scarpe erano diventate ancora più strette ed ogni passo sempre più doloroso. Alla fine preferì toglierle, le legò alla cintura dei pantaloni con un'altra striscia di stoffa e proseguì scalza.
Giunsero sull’orlo di una voragine.
“Ecco, siamo arrivati.” annunciò il giovane al suo fianco.
Kore si sporse dal precipizio.
Le pareti erano piene di aperture, come porte e finestre. Sembravano abitazioni scavate nella pietra.
Al centro di quel burrone simile alla bocca di un vulcano, si innalzava un massiccio che aveva la forma di un cono, con la parte più stretta rivolta verso il basso.
Anche quello era pieno di aperture.
Kore concentrò meglio lo sguardo e si rese conto che somigliava ad una gigantesca cattedrale gotica a testa in giù. La pietra era stata scolpita in modo da ricavarne loggette, scale, finestre. C’era un’intera città all’interno della montagna, ed era collegata al bordo del burrone da sottili ponti fatti della stessa roccia di cui era costituito l’intero paesaggio.
Kore si mosse verso uno di quei viadotti vertiginosi, ma il giovane la trattenne.
“Dobbiamo attendere la notte, sul ponte saremo troppo esposti.”
Kore si domandò come si potessero distinguere la notte e il giorno visto che si trovavano sottoterra, ma presto ebbe la risposta: dopo circa mezz’ora, la luminescenza verdognola che li aveva accompagnati fin lì, cominciò ad affievolirsi, finché le tenebre non li avvolsero completamente.
“Andiamo!” disse lui prendendola per mano.
Kore si lasciò guidare verso la città che ora era punteggiata di piccole luci.
Attraversato il ponte, si trovarono di fronte un grande arco dalla profonda strombatura, ricco di decorazioni e simboli incisi nella pietra. La sua guida non vi entrò, ma scortò la ragazza lungo uno stretto passaggio addossato al costone. Non c’era parapetto, e, nonostante l’oscurità impedisse a Kore di vedere lo strapiombo, il terrore la bloccò dopo pochi passi e lei si appoggiò terrorizzata con la schiena alla parete.
“Non posso, non ce la faccio.” pigolò.
“Un passo alla volta, dammi la mano, il percorso è breve.” la rassicurò l’altro, ma dovette faticare non poco per trascinarla fino all’ ingresso più piccolo e seminascosto che si trovava a pochi metri di distanza. Una volta all’interno, lasciò a Kore appena il tempo di riprendere fiato e calmare i battiti del suo cuore, poi iniziò a salire un’infinità di gradini finché si fermò di fronte ad una piccola porta di ferro. Si chinò, dato che l’apertura non era più alta di un metro, e bussò diverse volte ritmicamente, come se stesse facendo un segnale.
La porta si aprì appena e il volto di una donna molto anziana fece capolino, schiacciato fra lo stipite e lo sportello.
“Freda, facci entrare!”
La vecchia esibì i suoi pochi denti in un orribile sorriso, e si fece da parte lasciandoli passare.
Di fronte a loro, altri scalini.
Istintivamente Kore si nascose dietro la sua guida. Non sapeva se fidarsi più di lui o di una donna che sembrava appena uscita da un racconto sulle streghe.
Almeno il ragazzo non le aveva fatto del male. Non ancora per lo meno. Ma quella chi era? E che ci faceva laggiù?
“Guglielmo ti sta aspettando.” gracchiò la donna. “Ne hanno preso un altro.”
“Sì lo so, è suo fratello.” rispose accennando alla ragazza acquattata alle proprie spalle.
“Fratello?” la vecchia fece una smorfia. “Questo complicherà le cose.”
Poi si avvicinò a Kore, la osservò, studiando ogni particolare dei suoi vestiti, dei capelli, annusandola perfino come avrebbe fatto un animale. Kore si scansò infastidita. Ma la donna allungò un braccio fino a sfiorarle il ciuffo biondo con la punta delle dita ossute.
“Ma che vuoi?” Kore la allontanò con una spinta.
“Perdona Freda, non siamo ancora riusciti ad insegnarle le usanze del mondo di sopra.” disse il ragazzo, poi si rivolse all’anziana donna. “Andiamo, anche Marietta ti ha sempre detto che non è educato fissare”. Lei brontolò qualcosa che Kore non riuscì a comprendere e si allontanò.
Kore la seguì con lo sguardo, mentre si domandava chi fosse Marietta. Poi osservò il ragazzo e le sue labbra si piegarono in una smorfia. “E tu invece le conosci bene le nostre usanze, vero?” gli rinfacciò.
“Oh, certo, io so tutto su di voi: la televisione, la pubblicità: comprate il dentifricio al fluoro per denti bianchissimi!” gridò. “E poi lo smog, lo stress.” Rise. “Un posto interessante quello da cui vieni tu.”
Kore li fissò entrambi con gli occhi spalancati.
Il ragazzo parlava come se venisse da un altro pianeta. Eppure non era nemmeno straniero, si esprimeva in un buon italiano, forse migliore del suo. Tuttavia aveva uno strano accento che non riuscì a collegare a nessuna regione in particolare.
Kore mosse le labbra, ma per diversi secondi non articolò una sola parola. Quella situazione era talmente assurda che poteva essere solo un sogno, o uno scherzo architettato alla perfezione.
“Ma tu di dove sei? Sei italiano? Di dove?” sussurrò infine.
“Italiano? Sono di qui, vivo qui da quando sono nato. I miei genitori vivevano qui, e i miei nonni…” poi si colpì la fronte con la mano. “Ah! Per il mio accento? Abbiamo imparato il vostro dialetto dalle persone che sono arrivate qui da… sì, dall’Italia. E’ una buona cosa che abbiate iniziato a parlare tutti allo stesso modo. Secoli fa qui regnava una gran confusione. Per fortuna tua non sei finita nel regno di sale, quella gente parla la lingua più complicata che io abbia mai sentito, credo che fatichino a capirsi anche fra di loro.” rise. “Ma suppongo ci sia un collegamento fra il mondo della luce e questo regno notturno, qualcosa che ti trasporta nella città più vicina, infatti, prima di rifugiarsi tra queste gallerie, i miei antenati calpestavano la vostra stessa terra.” Spiegò esibendo due file di denti storti. “La grande Roma e Atene, e poi le piramidi.” disse accompagnando le sue parole con ampi gesti delle braccia.
“Beh, Roma e le piramidi non si trovano esattamente nello stesso posto.” brontolò Kore. “Fra poco mi dirai che sei una specie di faraone ammuffito?” continuò acida.
“Ammuffito? No, no, i miei progenitori credo fossero di una città che si chiamava Fiorenza. Ahimè, non ho radici tanto antiche, ma alcuni Discendenti sì, i loro avi erano davvero qui all’era delle piramidi.”
Kore continuò a fissarlo inebetita cercando di trovare una logica nelle sue parole. Aveva l’impressione di ascoltare il racconto di un film, una strana favola alla quale non voleva nemmeno prestare troppa attenzione. Continuò a guardarsi intorno, convincendo se stessa che un simile ambiente poteva trovarsi solo in un sogno. Presto quel luogo e il suo strano interlocutore sarebbero svaniti e lei si sarebbe ritrovata nella sua stanza da letto nella casa dei nonni a fissare l’orribile lampadario in vetro di Murano che pendeva dal soffitto.
Poi il giovane si voltò e le fece cenno con la mano, indicando una porta di fronte a loro.
“Andiamo, Guglielmo vorrà vederti.” La spinse verso l’altra stanza.
“Ah, io mi chiamo Ranuccio.” disse, mentre continuava a spingerla. “Così saprai chi dovrai ringraziare.”
“Ringraziare di avermi rapita?” sbottò lei, puntando i piedi. Di una cosa era certa, sia che fosse in un sogno o che nella realtà, odiava già quel ragazzo.
“No, di averti salvata.” la corresse lui aprendo la porta e facendosi da parte per farla passare. Lei sbuffò e si accinse ad attraversare la soglia.
Dall’interno provenivano le grida di un uomo.
“Dunque dobbiamo restarcene con le mani in mano? Silas potrebbe parlare, rivelare il nostro rifugio, tu…”
L’uomo si zittì immediatamente, appena si rese conto della presenza della ragazza.
Kore entrò nella stanza, se si poteva definire tale un locale scavato nella roccia come un pozzo circolare senza finestre e, apparentemente, senza soffitto, o comunque così alto da non essere visibile in quella poca luce. All’interno, scaffali, tavolo e persino le sedie erano ricavate nella pietra.
Alcuni erano finemente scolpiti con decorazioni che erano uno strano miscuglio di simboli medievali, egizi e di altre civiltà che non riuscì ad identificare, altri, invece, erano semplicemente modellati su sporgenze delle pareti. Il locale, piuttosto grande, era illuminato da alcuni bracieri. Il fumo di quei fuochi si innalzava risucchiato verso l’alto come se si trovassero all’interno di un enorme camino.
Nella stanza, c’erano diverse persone: un uomo piuttosto anziano, grassoccio, calvo e con una corta barbetta grigia. Camminava nervosamente avanti e indietro torcendosi le mani, mentre due ragazzi dai capelli biondissimi che dovevano avere all’incirca la sua età se ne stavano seduti in un angolo con lo sguardo perso nel vuoto. Accanto a loro, una donnina bassa, anche lei immobile, sembrava essere stata pietrificata. Era abbastanza giovane, con i capelli rossi arruffati, come Ranuccio indossava un pesante mantello nero. Ma ad attirare l’attenzione di Kore fu la persona in fondo alla stanza: un uomo alto e massiccio. Doveva essere quel Guglielmo di cui parlava la vecchia che li aveva accolti. Era vestito come se si trovasse ad una rievocazione storica medievale. Kore si aspettò che, da un momento all’altro afferrasse una torcia iniziando il suo numero da mangiafuoco. Ma lui se ne stava ritto, le braccia muscolose incrociate sul petto. Aveva gli occhi chiari, i capelli lunghi, castani striati di grigio e la barba. Ai fianchi portava diverse cinture, dalle quali pendevano dei pugnali di varie grandezze. Il volto era solcato da profonde cicatrici. Unica nota stonata era la sua carnagione bianchissima, insolita per quello che somigliava ad una sorta di rude guerriero.
Fissò per diversi minuti Kore, senza parlare, poi scosse la testa e, con uno scatto di rabbia, si avvicinò appoggiandosi al tavolo rotondo al centro della stanza che lo divideva dagli altri due. Sul ripiano erano posate delle mappe.
“Una femmina.” ruggì. “Un'altra dannata ragazzina.”
Kore sussultò, ma il ragazzo al suo fianco le posò la mano sulla spalla come per tranquillizzarla.
Dopo lo scatto iniziale, infatti, anche l’altro uomo sembrò calmarsi e tentò di metterla a suo agio in un modo piuttosto goffo.
Le fece cenno di accomodarsi.
Lei si sedette su uno sgabello di pietra. Il giovane che l’aveva accompagnata restò in piedi.
“Come ti chiami?” chiese secco.
Kore lo sfidò con lo sguardo, ma non rispose.
Allora lui, girando attorno al tavolo si avvicinò ulteriormente.
“Non ti ho trascinata io quaggiù, ragazzina.” soffiò chinandosi su di lei. “E’ stato un caso se tu e tuo fratello avete attraversato la soglia. Avrei preferito di gran lunga qualcun altro, ma la sorte evidentemente non è dalla mia parte.” Si sollevò e il suo sguardo ne percorse l’intera figura. “Nè dalla vostra, evidentemente.” Le labbra si piegarono in una smorfia di disgusto. “Purtroppo per te, qui si può entrare, ma è quasi impossibile uscire.”
“Dove mi trovo?” mormorò Kore.
Lui incrociò di nuovo le braccia, in silenzio, come se attendesse ancora la risposta alla sua precedente domanda prima di soddisfare la curiosità della ragazza.
“Kore, mi chiamo Kore Johnson.” sbottò infine lei.
“Bene Kore, sappi che ti trovi nella città di Lapidia, in un mondo sotterraneo chiuso e isolato da secoli.” disse lui ricambiandola per l’informazione.
“Ma io sono scesa solo di qualche metro, ero sotto al negozio di mio zio, lui dov’è?”
I tre uomini si scambiarono un’occhiata interrogativa.
Quello che aveva detto di chiamarsi Ranuccio sollevò le spalle.
“Io ho visto solo lei.” si giustificò.
“Suo zio non dev’essere passato.” concluse Guglielmo.
“Sì può sapere che succede? Passato? Che significa? Passato dove?” scattò lei.
“Puoi chiamarla magia se ti fa piacere.” La sua voce era carica di disprezzo. “Sei in un mondo magico, un mondo in cui si entra passando per delle soglie segrete. Ingressi che si aprono casualmente una volta ogni vent’anni e restano aperti per pochi istanti. Tu e tuo fratello, malauguratamente, ci siete finiti in mezzo.” Si allontanò voltandole le spalle. “Vostro zio non si è trovato sulla soglia mentre il passaggio era aperto, ed è rimasto dall’altra parte.”
“Ammesso che io creda a quest’assurdità, dov’è mio fratello? Perché, se anche lui ha attraversato questa… sì, insomma, la soglia, ora non è qui con me?”
“Tuo fratello è stato preso dai segugi.” disse senza guardarla.
“Cosa?” urlò la ragazza.
Allora l’altro marciò di nuovo verso di lei.
“Vedi, non tutti in questo mondo amano i visitatori.” il suo sguardo si posò sul gruppetto di sconosciuti.
“Visitatori? Io qui non ci volevo venire. Io voglio tornarmene a casa, io…” scattò Kore, ma prima che potesse alzarsi, lui si chinò perforandole pupille coi suoi occhi di ghiaccio. “E, soprattutto, non amano che si parli del mondo della luce.”
Lei lo fissò frastornata. “Cosa? Che significa ‘Mondo della luce’? Voi… allora davvero voi vivete qui?” la voce le si spezzò in gola, non riusciva a credere a ciò che la sua mente le stava suggerendo. Veramente quella gente poteva vivere senza mai vedere il sole?
Lui sembrò indovinare i suoi pensieri.
“Noi viviamo qui da secoli,” le disse con voce atona. “tentare di attraversare la soglia è proibito. Perciò tutti quelli come te che arrivano da questa parte vengono bloccati dai segugi. Tutti, tranne quelli che hanno il piacere di incontrare uno di noi.” Esplose in una fredda risata. “Ribelli, è così che ci definiscono.” Accennò al ragazzo che l’aveva condotta in quel luogo. Poi, tornò a fissarla come se attendesse una sua reazione, che, in effetti, non tardò ad arrivare.
“Oddio!” Gridò Kore portandosi le mani nei capelli. “Cosa… Cosa gli hanno fatto? Cosa è successo a Fabian?” Kore sentì una morsa improvvisa stringerle lo stomaco. L’idea che potesse essere accaduto qualcosa di grave a suo fratello era insopportabile. Per un attimo desiderò che lui non rispondesse, che tutto si fermasse.
“Ma non vedi che la stai spaventando? gridò il tipo grasso.
Guglielmo gli lanciò un’occhiata raggelante e poi tornò a rivolgersi alla ragazza. “A tuo fratello non è successo nulla, non gli faranno del male. Dimenticherà e starà meglio di te.”
‘Nulla’, quella parola risuonò nella mente di Kore come una liberazione, l’aria tornò a riempirle i polmoni e la speranza invase il suo cuore. Ma poi la mente registrò il resto della frase.
“Dimenticare? Ma cosa stai dicendo? Lui non dimenticherà mai.” Si alzò di scatto e si gettò sull’altro con rabbia. In lei si era scatenato un istinto di protezione e una forza che non credeva di avere. Si sentì all’improvviso disposta a tutto pur di salvare Fabian.
Ranuccio la bloccò.
“No, tu non capisci. Lo porteranno alla grotta del sonno e lì i suoi ricordi verranno cancellati. Succede a tutti.” disse.
“No, no, no!” Kore si gettò in ginocchio, scuotendo il capo in preda al panico.
“E’ l’unico modo.” continuò Guglielmo imperturbabile. “Da centinaia di anni la gente finisce qui sotto per caso. Solo diventando come noi, dimenticando il loro passato, possono sperare di sopravvivere.” Poi abbassò gli occhi. “Non ci si può rassegnare a vivere nell’oscurità, non per chi ha visto il sole. La vita qua sotto per loro sarebbe un inferno.” La sua voce tradiva un’infinita tristezza.
“Vivere nell’oscurità? Ma cosa…? Fabian non si rassegnerà mai, noi vogliamo andarcene da qui, io voglio tornare a casa mia.” urlò lei, fra le lacrime.
Di nuovo il più anziano intervenne cercando di consolarla. Si chinò al suo fianco posandole la mano grassoccia sulla spalla.
“Su, su, signorina, siamo tutti nella stessa situazione, vedrà che presto si risolverà tutto.”
La donnina nell’angolo emise un flebile gemito.
“Non dipende da lui, né da te.” disse Guglielmo gelido.
“Ed io? Io perché sono qui?” strillò e, scansando bruscamente la mano gentile dell’anziano sconosciuto, si rimise in piedi. “Cancellerete anche la mia memoria? E’ questo che volete farmi?”
Guglielmo la fissò intensamente. La luce della torcia si specchiò nei suoi occhi chiari che, per un attimo, sembrarono ardere di quella stessa fiamma.
“Solo se sarai tu a chiederlo.” Rispose, poi rivolse a Ranuccio uno sguardo d’ intesa.
Il giovane annuì e, poggiando le mani sulle spalle della ragazza, la spinse verso l’uscita.
Lei cercò di opporsi, voleva saperne di più, voleva capire.
“Ranuccio ti spiegherà tutto quello che devi sapere. Io ho già visto…” Guglielmo le rivolse un’occhiata carica di disprezzo. “…quello che non avrei voluto vedere.” La congedò.
“Andiamo,” le disse Ranuccio, prendendola per mano. “Ti mostrerò chi siamo.”
Lei si sottrasse stizzita al suo tocco, lui sorrise e la sorpassò per farle di nuovo da guida.
Ad un cenno di Guglielmo anche gli altri uscirono dalla stanza.
 
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Aliseia
view post Posted on 4/12/2013, 09:14




Io sto leggendo, da ieri sera, ma dovrai avere tanta pazienza per i miei tempi! Ho una lista di storie da leggere e da commentare, e lo faccio con grandissimo piacere e curiosità, ma il tempo è quello che è. :rolleyes:
Comunque, per quello che vale il mio giudizio: è scritta bene! Una scrittura precisa e lineare, una bella storia (ricordo i primi accenni, sai).
Vorrei averlo io questo stile così solido e pulito.
Dunque, sai che ci sono, e che mi muovo lenta lenta nel sottosuolo in attesa di rivedere la luce.
Prima o poi arrivo con un commento un po' più articolato e definitivo. ;)
 
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Astry
view post Posted on 4/12/2013, 13:28




CITAZIONE (Aliseia @ 4/12/2013, 09:14) 
Io sto leggendo, da ieri sera, ma dovrai avere tanta pazienza per i miei tempi! Ho una lista di storie da leggere e da commentare, e lo faccio con grandissimo piacere e curiosità, ma il tempo è quello che è. :rolleyes:
Comunque, per quello che vale il mio giudizio: è scritta bene! Una scrittura precisa e lineare, una bella storia (ricordo i primi accenni, sai).
Vorrei averlo io questo stile così solido e pulito.
Dunque, sai che ci sono, e che mi muovo lenta lenta nel sottosuolo in attesa di rivedere la luce.
Prima o poi arrivo con un commento un po' più articolato e definitivo. ;)

Carissima, non c'è fretta, la storia è ancora in corso e probabilmente, anzi sicuramente, sarà ripresa da capo (secondo le indicazioni del mio beta-massacratore). Però un'opinione femminile, soprattutto se è l'opinione di una snapina è sempre graditissima. :wub:
 
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Astry
view post Posted on 5/12/2013, 21:39




Cap. 5


Di nuovo nell’ingresso, trovarono Freda che aveva preparato dei calici colmi di una strana bevanda.
“Bevete qualcosa, avete molta strada da fare sino alla cava.”
“Dove volete portarmi?” Chiese Kore.
“Dove vive la maggior parte di noi. Lì troverai un alloggio. La città è solo per i Discendenti.”
Rispose Ranuccio afferrando con una sola mano uno dei calici. “Bevi, non troverai questa roba alle cave, è una bevanda per privilegiati.”
Kore prese il suo calice e assaggiò incerta il liquido giallognolo. “Sembra succo di frutta.” mormorò.
“Oh sì, è frutta, non è meraviglioso?”
“Sì, sì, certo.” Mugugnò Kore con poca convinzione.
L’uomo grasso sollevò il suo calice. “Avrei preferito un buon vino, ma… Accontentiamoci.”
“Vino?” Ranuccio fece una smorfia. “Lo sai, per avere del vino dovresti varcare i cancelli della Città del Sole, ma non credo che ti permetterebbero di uscirne tanto facilmente. O forse no? Potresti cucinare per loro.” Ghignò.
Il corpulento uomo bevve con rassegnazione, e le sue labbra si piegarono in una smorfia disgustata. “Ottimo davvero.” sbuffò. Poi, guardandosi intorno: “Beh, visto che nessuno ci ha presentati, farò da solo. Mi chiamo Bertone, ehm, sì insomma, Berto, ma tutti mi chiamano Bertone, per via della mia... ehm…” Si portò le mani alla cintura dei pantaloni esibendo un girovita che avrebbe fatto invidia ad un lottatore di Sumo. “Io faccio il cuoco, sai?” e strizzò l'occhio a Kore. “Anche se qui c’è ben poco da cucinare.”
La donna dai capelli rossi lo fissò con uno sguardo triste, ma poi anche le sue labbra si piegarono in un incerto sorriso e, avvicinandosi a Kore, si presentò.
“Io… sono Lucia. Sono arrivata qui molti anni fa, sono fra quelle che qui chiamano Figlie della luce, come te”.
“Sei stata nel negozio di mio zio?” mormorò dubbiosa la ragazza.
“Oh beh, non esattamente.” intervenne Ranuccio. “Le porte si aprono a caso e ci sono ingressi al nostro mondo sparsi in diversi punti della terra.” spiegò. “A volte si trovano all’interno di grotte, altre in mezzo ai laghi. Qui una volta è finito uno che era caduto dalla barca. Stava per affogare. Quando l’hanno trovato era convinto di essere morto, e credeva che gli uomini che aveva di fronte fossero angeli.”
“Sì, sì, ero io quello.” Lo interruppe Bertone. “Ma con tutto il buon vino che avevo in corpo quella sera avrei potuto scambiare per un angelo persino Guglielmo.” Si chinò e fissò gli occhi Kore. “L’Arcangelo Michele magari…” ridacchiò.
I cinque gli dedicarono uno sguardo di commiserazione, allora lui si schiarì la voce. “Oh, beh, insomma, lasciamo stare.” Si rivolse alla donna e ai due ragazzi.
“Voi resterete qui per stanotte, sono certo che Silas si farà vivo. Probabilmente avrà ritenuto più opportuno non scendere alla cava, con tutti i segugi che sono in giro questi giorni.”
Lucia annuì.
Kore, ignorando l’ultima parte del discorso, tornò ad interrogare Bertone su l’unica cosa che le interessava davvero.
“Quando siete arrivati qui?”
“Circa vent’anni fa.” Rispose lui. “Io, Lucia, e Marietta che conoscerai, siamo arrivati qui lo stesso giorno.
“Vuol dire che avete attraversato la soglia insieme?”
“No, no, non è così.” Intervenne Ranuccio. “L’apertura è molto ampia, non è una vera e propria porta. Insomma quando si apre, tutti quelli che si trovano ad una certa profondità, anche se sono molto distanti fra loro, finiscono per essere risucchiati quaggiù.”
Kore lo fissò pensierosa.
“Infatti non eravamo insieme e non siamo arrivati qui nello stesso momento: io sono arrivato qui molte ore prima di loro.” disse Bertone.
“Oh, sì, questo è un altro aspetto affascinante della soglia.” Spiegò il ragazzo. “In realtà l’hanno attraversata quasi contemporaneamente, ma, come dire? La porta ha la brutta abitudine di restituire una alla volta le persone che cattura.” Sollevò le spalle. “Non abbiamo mai capito il perché”.
“Stupendo!” bofonchiò Kore. “Non sapete come arriviamo qui, non sapete come mandarci indietro…”
“Beh, noi non conosciamo il modo. Gli antichi sì, e hanno trasmesso il segreto ai Sapienti, ma… come dire? Non sono disponibili.”
“Che vuol dire ‘non sono disponibili’?” sbottò Kore, piuttosto stizzita.
“Beh, vuol dire esattamente quello che ho detto, ma non sono cose di cui parlare in questo momento.” Posò il suo bicchiere e si avviò verso la porta di ferro da cui erano entrati, ne afferrò la maniglia e la spalancò tirandola verso di sé. Un rumore inquietante di ferraglia rimbombò nella stanza. “Ora dobbiamo andare.”
Kore avviandosi verso l’uscita, passò di fronte ai due ragazzi. “E voi? Non l’avete un nome?” chiese sgarbata.
“Ah, loro sono Leo e Makis.” La informò Bertone. Poi si chinò parlando al suo orecchio. “Sono un po’ preoccupati, è comprensibile che non abbiano voglia di fare amicizia.”
Uno dei due ragazzi si fece avanti e tese la mano verso Kore. “Scusa! Io sono Makis.” Kore restituì il saluto sentendosi un po’ in colpa per il modo in cui si era rivolta a loro. Come un lampo le tornarono in mente le parole di Bertone, qualcosa su un uomo che non si trovava, forse i ragazzi e Lucia erano la sua famiglia. Anche il fratello più piccolo si avvicinò e le rivolse un timido saluto.
Poi Lei, Ranuccio e Bertone uscirono dalla casa.
Una volta fuori cominciarono a scendere altri scalini, e percorsero una stretta galleria che immediatamente si ramificò in un altro dedalo di cunicoli.
Ranuccio camminava sempre avanti a loro. Aveva ripreso a guardarsi intorno circospetto, come se volesse controllare di non essere seguito.
Procedevano a tentoni, visto che l’unica fonte di luce era data da piccole fiammelle posizionate qua e la in fori scavati nella pietra. Evidentemente Ranuccio non riteneva prudente portare con loro una torcia.
D’improvviso un rumore li fece voltare. Ranuccio afferrò Kore e la trascinò dietro una sporgenza. Anche Bertone si appoggiò alla parete trattenendo il respiro nel vano tentativo di far sparire la pancia.
Kore tese l’orecchio mentre cercava di capire cosa avesse messo in allarme la loro guida. In fondo al cunicolo vide un gruppo di anziane donne. Erano le stesse che avevano incontrato al suo arrivo. Avevano i capelli lunghissimi, completamente bianchi, piuttosto arruffati e stoppacciosi.
“Maledizione!” imprecò sottovoce Ranuccio. Kore ormai aveva capito che, chiunque fossero quelle vecchie, il giovane ne aveva una gran paura, e il sentimento contagiò anche lei che iniziò a tremare.
Si voltò e trovò dietro di sé una spaccatura della roccia che sembrava una nicchia. D’istinto si infilò all’interno, anche Bertone si accostò maggiormente alla parete, ma Ranuccio afferrò Kore per un braccio.“Non qui,” sussurrò. “Nascondersi non serve.” La tirò quasi a forza verso di sé, poi rivolgendosi all’altro gli fece cenno di seguirlo. “Dobbiamo scappare”. Prese a correre a perdifiato tra i cunicoli in discesa, aiutandosi con le braccia, per non scivolare a causa del pavimento reso viscido dall’umidità.
Bertone faticò a stargli dietro.
Quando furono sufficientemente lontani, Ranuccio si fermò e si piegò in avanti, cercando di riprendere fiato.
“Ma si può sapere chi sono quelle donne?” chiese ansimando Kore.
“Quelle erano segugi.” Rispose Ranuccio, la voce era affaticata, ma nel suo volto si leggeva una soddisfazione quasi infantile, come se rischiare di rompersi l’osso del collo per fuggire da un pericolo, che Kore non riusciva ancora a stabilire quanto grave, fosse un divertimento. Era come se avesse appena guadagnato cento punti ad un videogioco. “Sono streghe, più o meno.” Fece una smorfia. “Avrebbero percepito la nostra presenza se fossero arrivate abbastanza vicine.” Continuò. “Con loro, nascondersi non serve.”
“Sono loro, sono i segugi che hanno preso Fabian?” Kore trasalì. Per un attimo si chiese se avesse fatto bene a seguire il ragazzo piuttosto che farsi prendere e raggiungere così suo fratello.
Lui annuì, poi la fissò con aria comprensiva, come se avesse intuito il suo pensiero. “Se ti avessero presa, saresti stata portata immediatamente alla grotta del sonno. Non potrai salvare tuo fratello se dimenticherai di averlo.”
Ripresero a scendere, finché non giunsero ai piedi di Lapidia. Uscirono all’esterno sul fondo del cratere. Tutt’intorno si aprivano dei fori, porte e finestre scavate nella pietra, illuminate come nella città, ma il loro aspetto era molto più rozzo. Scalette ripide si arrampicavano sui costoni unendo le une alle altre le insolite abitazioni. A poca distanza da dove si trovavano si apriva un ampio portale, doveva essere l’ingresso principale della città, Ranuccio evidentemente aveva optato per una strada meno frequentata.
“Beh, qui ci separiamo.” Disse Bertone salutando il ragazzo con una manata sulla schiena che per poco non lo fece cadere a faccia in giù. Mentre si limitò a sorridere alla ragazza, prima di allontanarsi.
Kore intanto continuava a guardarsi attorno. C’era movimento, nonostante fosse notte: qualcuno si affannava entrando e uscendo dai cunicoli rischiarati da piccole lanterne. Sembrava di trovarsi in un formicaio.
“Sono minatori?” domandò alla sua guida.
“Sì, estraggono la pietra verde. Si tratta di una pietra magica che i Discendenti usano per produrre luce e calore. E’ molto preziosa, direi vitale. Io abito lassù.” disse poi indicando uno dei tanti buchi sulla parete.
Le labbra di lei si piegarono istintivamente in una smorfia disgustata.
“Sai io qui ci sono nato,” continuò Ranuccio intanto che, aggrappandosi ad una vecchia fune, iniziava a salire i ripidi gradini. “Ma mi hanno detto che nel mondo di sopra vivete tutti in case molto belle.”
“Sì, molto belle.” Rispose Kore, e, svogliatamente, lo seguì in quella pericolosa salita lungo la parete rocciosa.
Arrivati a metà strada però si fermò e protese il braccio verso l’altro, trattenendolo.
“Cosa intendeva Guglielmo, quando ha detto di aver visto quello che non voleva vedere?”
Ranuccio la guardò per qualche istante senza parlare, come se stesse valutando se fosse il caso di rispondere o meno.
“Sai,” disse infine, “Per Guglielmo tu sei l’ennesima delusione.”
“Delusione? Ma cosa diavolo c’entro io con lui?” Kore non riusciva a capacitarsene, ma aveva percepito l’astio dell’uomo e lo trovava estremamente ingiusto. Era ingiusto che, nonostante l’enormità di ciò che le era appena accaduto, qualcuno potesse addirittura prendersela con lei.
“Il suo più grande desiderio è poter varcare quella soglia,” Spiegò Ranuccio. “E spera che qualcuno dall’altra parte scopra l’ingresso e il modo di tenerlo aperto per farci fuggire da qui. Purtroppo, tutti quelli che arrivano da questa parte, non hanno la più pallida idea di come ciò è accaduto e non sanno come fare a tornare.” Le labbra assunsero una piega amara. “Proprio come te.”
Kore fissò gli occhi tristi del giovane.
“Lui sperava che io sapessi come tornare indietro?” mormorò.
Il ragazzo annuì. “E’ stato evidente fin dal primo momento che eravate finiti qui casualmente come tutti gli altri.” Le offrì il braccio aiutandola a superare dei gradini particolarmente ripidi. “Attenta a quello,” disse indicando uno spuntone di roccia, poi continuò. “La notizia che tuo fratello era stato preso dai segugi ci aveva preceduti, ma forse lui ha sperato fino all’ultimo che almeno tu…”
“Già, e quando ha visto che non sono altro che una stupida ragazzina, le sue speranze si sono miseramente infrante.” Abbassò lo sguardo, “Assieme alle mie”.
Lui sorrise appena. “Ecco, appoggiati a me.” L’aiutò a scavalcare un ultimo ostacolo.
Giunti all’ingresso di una delle abitazioni rupestri, una giovane donna andò loro incontro.
“Tu devi essere la nuova arrivata.” Esordì asciugandosi le mani nell’ampio grembiule. “Povera cara, sarai spaventatissima. Vieni, entra.” disse accennando con la mano alla grotta alle sue spalle.
Kore notò subito che era molto diversa dalle altre persone che aveva incontrato fino a quel momento. Se non fosse stato per lo strano abbigliamento avrebbe potuto definirla ‘normale’. Aveva grandi occhi blu e una folta chioma di capelli ricci e castani che fuggivano al sottile legaccio che li imprigionava dietro la nuca allargandosi attorno alla sua testa come un cespuglio ondeggiante.
“Mi chiamo Marietta.” continuò.
“Io… Io sono Kore.” Disse timidamente.
“Marietta è l’altra arrivata qui assieme a Bertone e Lucia.” La informò Ranuccio. “Lei è come te, giunta qui dalla soglia proibita, o, dovrei dire, da una delle soglie”.
Kore gli rivolse uno sguardo stupito, mentre varcava l’ingresso dell’insolita dimora.
“Quindi tu… Tu sei arrivata qui vent’anni fa?”
La donna sorrise.
“Infatti. Ero una bambina.”
Kore rabbrividì, realizzando che avrebbe potuto trascorrere in quel luogo il resto della sua vita.
“Sono finita in una degli ingressi situati in Italia. Ce ne sono in tutto il mondo, sai?” Continuò.
Ma Kore non la stava ascoltando. Vent’anni era un tempo inconcepibile, i suoi genitori, suo fratello, come avrebbe fatto senza di loro, come avrebbe potuto sopravvivere in un posto simile?
“Io voglio tornare a casa.” Tremò.
La donna l’abbracciò.
“Ci tornerai presto, vedrai.”
“Ma la porta… La porta è chiusa e qui nessuno sa come aprirla, nessuno c’è mai riuscito.” Prese a singhiozzare.
Gli occhi di Marietta corsero ad incontrare quelli del ragazzo che scosse appena la testa come se volesse impedirle di dire qualcosa.
“Già, nessuno ci è mai riuscito.” mormorò lei, facendola accomodare su un altro duro sgabello di pietra e infilandole tra le mani una ciotola piena d’acqua. “Ma, sono certa che Guglielmo riuscirà a portarci fuori di qui.”
“Il vostro amico Guglielmo, a quanto pare, spera che l’aiuto gli piova dal cielo, o almeno dal soffitto di questo maledetto posto.” rispose la giovane con rabbia.
“Non dire così. E’ vero, lui spera che qualcuno venga ad aiutarci, ma non ha rinunciato a cercare di aprire la soglia da questa parte. Io non ho smesso di crederci.”
“Già, ma forse l’avranno fatto quelli che ti hanno cercata dall’altra parte. I tuoi genitori, gli amici.” Le mani tremarono, versando un po’ dell’acqua della ciotola sul pavimento grezzo. “Mio Dio, sono passati vent’anni. Come hai resistito tanto tempo in questo posto?”
Marietta si morse il labbro voltandosi di spalle perché la ragazza non potesse vedere la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
Ma Kore se ne accorse ugualmente.
“Io, mi… mi dispiace, non volevo,” si scusò. “Ma ho paura, io voglio tornare a casa, voglio rivedere mio fratello…” scoppiò in un pianto dirotto.
Ranuccio si avvicinò a Marietta e, prendendola per mano, la allontanò da lei.
“Laciamola sfogare, ne avrà bisogno.”
“Certo.”
Entrambi uscirono.
 
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Astry
view post Posted on 13/12/2013, 20:58




Cap. 6

Kore si ritrovò sola nella piccola stanza. Pianse e si sfogò.
Poi quando non ebbe più lacrime si alzò e, stropicciandosi gli occhi si avvicinò alla parete. Vide che vi erano state scavate delle piccole nicchie. Rabbrividì: quei buchi ricordavano i loculi di una catacomba, anche se in realtà erano semplici ripostigli stracolmi di roba vecchia.
L’insolita abitazione sembrava uscita da un museo. Oggetti di terracotta di svariate forme erano stipati nei ripiani. Tutto intorno era umido e annerito. Si chiese se gli abitanti di quella strana città avessero problemi alle ossa.
Poi il suo sguardo fu attirato da qualcosa che sembrava un foglietto. Era nascosto da una pila di piatti. Lo sfilò un po’ timorosa e scoprì che si trattava di una fotografia. Una tipica foto ricordo del circo; di quelle che tutti i genitori, prima o poi, fanno fare ai propri figli. Un tizio con la divisa da domatore, sosteneva una bambina a cavallo di un pony. Lei aveva i capelli lunghi e ricci di un bel castano dorato, e grandi occhi blu. La sua espressione preoccupata e concentrata la faceva sembrare più grande, anche se non doveva avere più di cinque anni.
“Potrei essere arrestata per quella, sai?”
Una voce alle spalle di Kore la fece sussultare.
Si voltò. Marietta era entrata di nuovo nella stanza e le sorrideva. Teneva in mano un vassoio con una ciotola e del pane. Dietro di lei, Ranuccio se ne stava appoggiato allo stipite con le braccia incrociate sul petto.
“L’avevo con me quando sono arrivata. Una fotografia in un mondo bloccato al medioevo,” sorrise. “Non ne troverai un’altra.” Continuò Marietta avvicinandosi.
Si lasciò cadere sul sedile di pietra e l’impatto con la superficie durissima le strappò una smorfia. “Come non troverai un sedile decente.” Sbuffò, appoggiando il portavivande sul tavolo o, piuttosto, sul ripiano scolpito tutto d’un pezzo nella roccia che fungeva da tavolo.
“Sì, ho notato: qui i mobili li fanno di pietra.”
“Beh, non hanno molta scelta. Da quando la porta è stata sigillata sono rimasti isolati. Non arriva più niente dal mondo esterno.”
“Trovare una sedia di legno qui è come avere un trono completamente ricoperto d’oro. Ce ne sono di molto antiche ma sono pochi a possederne.” Aggiunse Ranuccio. Il suo viso si era illuminato come se parlasse di una delle sette meraviglie del mondo.
“Ma non possono costruirne altre?” Domandò Kore, accomodandosi di fronte a Marietta.
Marietta la guardò come se avesse detto un’eresia e in effetti, era così.
“Per costruirne serve il legno.” Le fece notare con un sorriso, mentre la invitava a servirsi.
Kore si morse il labbro.
“Ma certo, il legno. Non esistono alberi sottoterra.” Mormorò, inzuppando il pane nella ciotola piena di quello che doveva essere latte; non osò chiedere di quale animale.
“Infatti qui non ci sono alberi.” continuò Ranuccio. “Non sai cosa darei per vederne uno. Ce ne sono nella Città del Sole, è da lì che ci arrivano cibo e vestiario, ma a noi non è permesso vederla. Pare che la sua bellezza riesca ad incantare gli uomini e a farli impazzire.”
Ranuccio aveva un’aria sognante.
Kore si voltò di scatto verso di lui.
“Voglio ritrovare mio fratello.” disse decisa ignorando le parole dell’altro. “Voi sapete dov’è?”
Ranuccio e Marietta si scambiarono uno sguardo incerto.
“L’avranno portato alla Grotta del Sonno.” Mormorò la donna.
Lui scosse il capo.
“Non c’è modo di arrivarci. Se scoprissero che ti abbiamo nascosta, finiremmo tutti nei guai.”
“Ci andrò da sola. Se non volete accompagnarmi.”
“No, tu non ti rendi conto. Questo non è un gioco. So come vanno le cose nel tuo mondo. Ma qui è molto diverso. La punizione per chi aiuta quelli come te è terribile.”
“Ha ragione.” Confermò Marietta. “Ranuccio, così come Guglielmo, qui sono considerati dei ribelli. E’ proibito cercare la soglia, è proibito persino parlarne, e, per evitare che la gente si faccia strane idee, tutti quelli che vengono dall’esterno vengono presi e i loro ricordi cancellati prima che possano contaminare con le loro storie di libertà gli abitanti di questo mondo.”
Si avvicinò all’ingresso della sua casa e guardò in basso, nel burrone dove le fiammelle delle torce dei minatori si muovevano in modo frenetico creando un insolito gioco luminoso..
“Molti di loro sono qui. Sono convinti di essere nati qui, non ricordano niente del loro passato, non sanno chi sono stati. Sanno solo chi sono ora.”
“E chi sono ora?” La voce di Kore era ridotta ad un soffio. Era chiaro che non aspettava nessuna risposta alla sua domanda.
Marietta non parlò, mentre gli occhi di Kore corsero a supplicare Ranuccio.
“Vedi, questo è un mondo ostile.” Iniziò a spiegare lui. “Non è stato creato per i Figli della Luce. Nessuno di noi, parlo di me, te, o Marietta potrebbe resistere per più di una settimana quaggiù. Quelli ai quali sono stati tramandati i segreti della magia sono temuti e rispettati, perché solo grazie a loro possiamo sopravvivere. Gli altri… i Figli del Sole, o chi non ha abbastanza potere per trovare il proprio posto in questa società è… Ecco puoi vederlo tu stessa.” Disse accennando agli uomini in fondo alla scarpata impegnati nel loro duro lavoro.
Era evidente che vivevano in condizioni di estrema povertà.
“E’ questo che succede a quelli come me? Lavorano come schiavi per un popolo di stregoni?”
“In realtà fanno l’unica cosa che sono in grado di fare per dare il loro contributo. Altrimenti sarebbero solo un peso in questo mondo. Qui non esisterebbe niente, non crescono piante, non sopravvivono animali e quelli che ci sono... beh, non sono del tutto addomesticati.” Fece una smorfia. “Non ci sarebbe né cibo, né vestiario, nulla. E’ solo la potenza della magia che permette a questa gente di sopravvivere. In cambio coloro che non ne conoscono i segreti svolgono le mansioni più umili. Cose che un Discendente non farebbe mai.”
“Discendenti?” domandò Kore piuttosto spazientita. “E’ da quando sono arrivata che sento parlare di questi Discendenti, ma discendenti di chi?”
Marietta si alzò, prese un'altra ciotola per sé e si versò un po’ di latte.
“I Discendenti sono quelli che vivono qui da molte generazioni,” Disse. “Sono, ecco...” Fissò per un attimo il liquido bianco che ondeggiava nella scodella, come se potesse trovarci le parole più adatte a spiegarsi. “Sono Maghi, discendono direttamente dai primi abitanti di questo mondo.” Poi un lampo le attraversò lo sguardo. “Ranuccio mi ha detto che hai conosciuto una di loro.”
Kore la fissò stupita. Poi rivolse un’occhiata interrogativa al ragazzo: se aveva visto un Discendente, di certo non doveva avere nulla di speciale.
Ripensò alle persone che aveva incontrato al suo arrivo: Bertone aveva detto di essere giunto lì dalla soglia, così come Lucia e Marietta. Forse Guglielmo?
No, lui non poteva essere un Discendente, Marietta l’aveva definito un ribelle, e inoltre non aveva affatto l’aspetto di un mago, anche se lei non aveva idea che aspetto potesse avere un mago.
Poi le sue labbra si piegarono in una smorfia disgustata, e un brivido le percorse la schiena, mentre il volto incartapecorito della donna che li aveva accolti compariva nella sua mente.
“Freda?” disse con un fremito nella voce, intanto che il suo cervello affiancava al viso della vecchia, centinaia di altri volti che l’avevano accompagnata fin da bambina. Volti disegnati nei libri di favole, figure nere e raggrinzite di streghe, fattucchiere, accanto ai loro calderoni fumanti.
Marietta annuì e sorrise.
“Freda è una maga molto potente, le ho visto fare cose eccezionali da quando sono arrivata in questo mondo.”
Kore appoggiò con i gomiti al tavolo e si afferrò i capelli.
“E’ assurdo, insomma, lo capite che è assurdo?” Gridò. “Sono finita in un libro, no, peggio, sono finita in qualche orrendo incubo, come quelli che avevo da piccola?”
Marietta le si avvicinò. “Cara, non devi…”
“Cosa non devo? Non devo preoccuparmi? Non devo prendermela?” Urlò l’altra. “Non so dove è finito mio fratello, non so dove mi trovo. Da quando sono arrivata ho sentito solo chiacchiere. Sono finita in un mondo di maghi. Hanno cancellato la memoria a mio fratello e lo hanno portato chissà dove. Non sapete come uscire di qui. Gli schiavi… I maghi… Quali maghi? Finora ho visto un matto che sembrava appena uscito da un circo, una vecchia rattrappita e un mucchio di gente che lavora per non so chi.” Tutta la tensione accumulata scivolò fuori dalle sue labbra con una violenza che la ragazza non credeva neppure di possedere. Si ritrovò ansimante a fissare Marietta che la guardava a sua volta con le labbra serrate e un’espressione di sconfortata indulgenza stampata sul viso.
Un sospiro sfuggì dalle labbra di Kore che si alzò e fece qualche passo nervoso attorno al tavolo, come avrebbe fatto un animale in gabbia. Poi si sedette di nuovo, posò entrambe le mani sulla lastra di pietra che fungeva da ripiano e fissò Ranuccio con ritrovata determinazione.
“D’accordo,” disse decisa. “Se è un sogno, domani mi sveglierò e non sarà successo niente, ma se non lo è, voglio sapere tutto di questo posto, ogni particolare.”
Marietta le posò una mano sulla spalla.
“Forse dovresti aspettare domani, ora sei stanca.”
“No!” Kore scansò bruscamente la mano di Marietta. “Ora mi direte cos’è questo posto orrendo e per quale assurda ragione un mago o chiunque altro sceglierebbe di vivere sepolto qua sotto?
“Sepolti?” Ranuccio sospirò. “Sepolti.” ripeté con un filo di voce, poi si accomodò sul sedile di pietra, e prese ancora un profondo respiro accingendosi a raccontare una lunga storia.
“Non era così che doveva andare.” scosse il capo. “Il mondo sotterraneo doveva essere per privilegiati. I nostri antenati in un certo senso erano stati ammessi ad un Paradiso.”
Kore stava per obiettare che il luogo in cui si trovavano non somigliava affatto al Paradiso, ma Ranuccio seguitò.
“Creature eccezionali plasmarono, millenni or sono, un mondo segreto, un regno capovolto, perfetto e bellissimo.
Non erano maghi e nemmeno uomini, non come noi. Erano esseri dotati di poteri straordinari, in grado di controllare la natura e persino il tempo.”
Lo sguardo della ragazza si spostò incerto da Ranuccio a Marietta, la sua ospite annuiva. I loro occhi si incrociarono e la donna, con un cenno del capo, la invitò a seguire con attenzione Ranuccio che intanto continuava il suo racconto:
“Prima di rifugiarsi sotto terra vivevano alla luce del sole ed erano adorati e temuti dagli uomini. Dei, Demoni, in qualunque modo i popoli di ogni razza e lingua avessero deciso di chiamarli, loro ne avevano guidato l’esistenza dall’inizio dei tempi. Poi abbandonarono la superficie e del loro immenso potere non rimase che un pallido ricordo fra i figli della luce; un ricordo tramandato da generazioni di maghi, sacerdoti iniziati agli antichi misteri, studiosi, alchimisti, chiromanti, veggenti e chiunque avesse delle doti fuori dal comune.”
Ranuccio parlava con calma e sicurezza, come se avesse ripetuto quella favola centinaia di volte, o l’avesse udita raccontare da qualcun altro. Una storia tramandata da secoli, forse trasformata, intessuta di bugie e mezze verità. Ed ora lui, stava rievocando abilmente quel lontano passato, come avrebbe fatto un bravo attore di strada, di quelli che raccontano le loro fiabe seduti su un marciapiede davanti ad un pubblico incantato di bambini.
Nell’udire le sue parole le labbra della ragazza assunsero via via le pieghe più insolite, e la sua espressione passò dallo stupore, all’incredulità e persino alla rabbia.
“A loro gli Dei avevano svelato il segreto per raggiungere il loro regno.” continuò il giovane. “Molti maghi varcarono la soglia e non tornarono più in superficie. I loro figli nacquero nelle città sotterranee, e così, per generazioni, i loro poteri crebbero ed essi divennero sempre più simili gli Dei che servivano. Altri, invece decisero di vivere a cavallo dei due mondi: erano in grado di attraversare la soglia a loro piacimento e usarono il sapere acquisito per guidare, curare e istruire i figli della luce.”
“Ma ora non ne sono più capaci? Perché, se ci sono ancora Maghi qui, non possono attraversare la Soglia?” lo interruppe Kore speranzosa.
“Perché il passaggio è stato sigillato; gli Dei hanno voluto così. In realtà l’hanno fatto per proteggere i Maghi, per salvarli.”
Kore fissò il ragazzo con gli occhi spalancati.
Lui afferrò un pezzo di pane e lo inzuppò nella ciotola di latte.
“Permetti, vero?” chiese, mentre già il cibo gli riempiva la bocca e poi, senza preoccuparsi di inghiottire, prosegui il suo racconto.
“Secoli fa,” si grattò la testa pensieroso. “Sì, più di mille anni, credo, quando i Figli del Sole cominciarono a temere la magia, coloro che la praticavano, stregoni, ma anche studiosi furono costretti a nascondersi. Molti vennero uccisi, e l’antico sapere fu cancellato e dimenticato nei roghi delle biblioteche.
Il sottosuolo divenne l’unico rifugio sicuro per coloro che erano dotati di capacità magiche.
Per proteggere loro e se stessi, gli Dei proibirono ogni contatto con il popolo della superficie.
“Ma… Non capisco.” Kore si portò l’indice sulle labbra, mordicchiandolo nervosamente. Un gesto che faceva spesso quando aveva bisogno di concentrarsi. “Più di mille anni?” Ripeté quasi a se stessa. “Come è possibile? La pratica della magia non è scomparsa, la caccia alle streghe non è avvenuta mille anni fa, ma è molto più recente, persino oggi è pieno di…” fece una smorfia. “…Maghi o roba simile.”
“Già, è quella ‘roba simile’ che ci ha portato a questo punto.” sbuffò Ranuccio.
“Vedi, quando parlo di Maghi non mi riferisco ai tizi che dicono di saper leggere il futuro giocando con un paio di carte o a quelli che, mettendo strani intrugli nelle bevande, pensano di poter far innamorare la gente, o farla diventare ricca e altre stupidaggini del genere. No, io parlo di vero Potere come quello di riuscire a mantenere in piedi un mondo come questo.” Fece un amplio gesto delle braccia per indicare quel luogo.
“Quando gli ingressi furono chiusi e i Maghi decisero di restare nel mondo sotterraneo…”
“Restare qui?” Kore lo interruppe di nuovo: non capiva come si potesse scegliere di vivere in un posto simile pur di non rinunciare alla magia.
“No, non qui.” Si affrettò a precisare l’altro. “Il regno di cui parlo si trovava in regioni molto più profonde di queste. Qui abbiamo molti racconti: si dice che quel posto fosse magnifico, era davvero un Paradiso… Ed ora fammi finire!” Si lasciò sfuggire un sospiro cercando di riprendere il filo del discorso.
“Ecco, dicevo: fra coloro che vennero a vivere nel sottosuolo non c’erano solo stregoni: altri si erano uniti al popolo dei prescelti, esattamente quel tipo di Maghi o ‘roba simile’ che non avrebbero mai dovuto venire qui. In qualche modo riuscirono ad entrare, grazie allo studio di antichi testi, e nonostante le loro mediocri capacità. Alcuni spinti dalla curiosità, altri in cerca di illuminazione, riuscirono a raggiungere il Regno degli Dei, ma in molti di loro il potere era, appunto, così debole che non potevano neppure definirsi Maghi.
Contaminarono col loro sangue il popolo dei prescelti, la conoscenza andò perduta e così quella gente non venne più ritenuta degna di restare nel Paradiso.
Furono scacciati quasi tutti, ma non poterono ritornare in superficie perché gli ingressi non furono riaperti. Così rimasero intrappolati per generazioni in questo limbo oscuro fatto di grotte, cunicoli, fiumi di lava. A metà tra il Paradiso e il mondo degli uomini.
Qui, in questo luogo inospitale sopravviviamo da secoli proprio grazie ai Discendenti, uomini nel cui sangue scorre ancora l’antico potere dei primi abitanti, e che hanno la capacità di ricreare, almeno in parte, l’energia vitale del sole, far crescere il grano nell’oscurità, far germogliare fiori e maturare la frutta.
“Quasi tutti?” Ripetè Kore “Hai detto che furono cacciati ‘quasi tutti’, vuol dire che qualcuno di loro vive ancora nel…” arricciò le labbra, incerta. “… Paradiso?”
“Ecco ci sono quelli che chiamano Sapienti. Le leggende dicono che siano ancora in grado di raggiungere il regno degli Dei o almeno possano comunicare con loro. Vivono isolati in luoghi inaccessibili. Pare che siano potentissimi e che conoscano il segreto dei passaggi per il mondo della luce, ma nessuno li ha mai visti, o dovrei dire ‘quasi nessuno’, sembra, infatti, che in alcune occasioni si siano mostrati a dei membri del consiglio, influenzando certe loro decisioni.”
“Insomma non si fanno vedere, ma dettano legge in questo mondo.” Mugugnò Kore.
Ranuccio aggrottò la fronte.
“In un certo senso sono sempre gli Dei che comandano qui, ed ora lo fanno attraverso i Sapienti.” Continuò. “E poi… Sì, poi ci sono ci sono i Discendenti, nemmeno loro furono cacciati, scelsero di vivere con i loro simili. Dovremmo essere loro grati: se non lo avessero fatto, nessuno degli esclusi sarebbe sopravvissuto in questo posto. Loro li hanno salvati condannando se stessi e i loro figli all’oscurità. Una scelta terribile dalla quale non sarebbero più potuti tornare indietro.”
“Si sono sacrificati per un popolo che ora riducono in schiavitù?”
Ranuccio scosse il capo.
“Kore, io sono un ribelle, sto lottando per liberare gli schiavi,” spiegò amabile. “… Ma non incolpo i Discendenti di questa situazione. Ogni uomo o donna che arriva dalla soglia costituisce una minaccia, una possibilità in più che il sangue dei maghi possa mischiarsi al nuovo sangue. Il giorno in cui questi uomini saranno considerati loro pari, la magia sparirà dal nostro mondo e con essa la vita.
“Ranuccio ha ragione.” S’intromise Marietta. “E’ una legge dura, ma è inevitabile. Il Consiglio a volte è costretto ad essere spietato. Stiamo parlando di sopravvivenza. I Discendenti si sono divisi in base alle loro capacità: i veggenti, gli alchimisti, i guaritori, i segugi. Alcuni sono più potenti di altri, ma collaborano per restare in vita nell’oscurità. Il giorno i cui il loro potere magico sparirà del tutto, sanno che la loro civiltà è destinata ad estinguersi. Per questo motivo hanno paura di noi: finché restiamo un popolo di schiavi non costituiamo un pericolo, ma se i figli del sole dovessero ricordare da dove vengono potrebbero ribellarsi, e sarebbe la fine.”
“Già, ma senza maghi morirebbero anche loro, per questo nessuno si ribellerà finché non riusciranno a trovare la soglia segreta.” considerò Kore.
“Esatto”. Ranuccio mimò un inchino. “infatti noi siamo qui per questo.”
Marietta sorrise.
“E tu? Tu sei un mago?” domandò la ragazza.
Una nube oscurò il volto di Ranuccio.
“Mio padre lo era. Mia madre è nata qui, ma i suoi antenati erano figli della luce. Mio padre ha pagato a caro prezzo l’aver contaminato il sangue dei Discendenti.
Io non ho mai potuto conoscere i suoi segreti. Ero troppo piccolo quando è morto.”
Si alzò e si allontanò dando le spalle alle due donne.
Ci fu un lungo silenziò poi Ranuccio seguitò in un tono di voce più allegro. “Ma ho sempre sognato di vedere il sole.” rise. “Dev’essere il sangue di mia madre. Per quello mi sono unito a Guglielmo. Un giorno varcheremo insieme la soglia ed io diventerò il re del mondo della luce.” gongolò orgoglioso.
“Certo, ti faranno re della pizza.” sbuffò lei. Poi, pensierosa, si passò di nuovo un dito sulle labbra.
“Tuo padre è stato punito per essersi innamorato di tua madre?”
Lui annuì. Ci fu ancora silenzio.
“Andiamo, sarà meglio che ti riposi un po’.” Marietta si intromise e, posando una mano sulla spalla della ragazza, la guidò verso alcuni scalini.
Immettevano in un altro vano dove c’era qualcosa che somigliava ad un letto. Un ripiano coperto di una sostanza soffice che Kore non provò nemmeno ad identificare.
“Non voglio dormire, voglio sapere tutto, voglio sapere come andare a riprendermi mio fratello.”
“Dovrai riposarti, potrebbe passare molto tempo prima che tu riesca a rivedere tuo fratello.”
Kore si sedette sul letto, era comodo. Guardò Marietta.
“Credi che lo rivedrò?”
“Certo che lo rivedrai. Presto anche lui sarà portato qui nella cava.”
“A lavorare come tutti gli altri?”
Marietta si morse il labbro.
“Non si ricorderà più chi sono.” Mormorò Kore con voce incrinata.
L’altra allora si avvicinò sedendosi sul giaciglio accanto alla sua ospite.
“Una leggenda dice che coloro che vengono dal mondo della luce, ricorderanno appena il sole illuminerà di nuovo il loro viso.” L’abbracciò. “Ora dormi.”



Cap. 7



Aprì faticosamente gli occhi. Sentiva le palpebre pesanti, era come avere la febbre, ma non ricordava di essere stato male. In effetti, non rimembrava nulla di quello che era successo negli ultimi giorni. L’unica cosa che ricordava erano occhi che lo fissavano in modo strano, occhi scuri. Uno sguardo privo di luce, eppure tanto penetrante da essere quasi doloroso. Un uomo, il suo volto pallido. Una voce che pronunciava parole senza senso, come una serie di sillabe che parevano intrecciarsi in una spirale infinita che emergeva dal nulla assoluto. Il nulla della sua mente.
Ricordava una terribile sensazione di vuoto e ricordava che all’udire quelle parole si era attenuata.
Quella voce era come acqua per un assetato. Aveva bevuto avido ogni sillaba e poi una serie di immagini erano giunte a colmare il vuoto: il viso di una donna, una casa, la sua casa, miniere, infinite gallerie immerse in un insolito chiarore.
Sì stropicciò gli occhi con i pugni e cercò di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava. Doveva aver sognato.
Si sollevò dal giaciglio in cui era disteso, era poco più di un pagliericcio, un sacco di stoffa grezza imbottito alla meglio. Era il suo letto.
Si guardò attorno, osservò la camera, un locale scavato direttamente nella pietra. Le pareti non avevano una forma ben definita.
Ebbe la strana impressione di non appartenere a quel luogo, eppure lo conosceva, doveva conoscerlo, era la sua casa. Lì era nato, e fuori da quella stanza c’era sua madre, probabilmente intenta a preparare il pranzo.
Chinò lo sguardo e osservò con curiosità il camicione grigio che indossava. Aveva dei lacci nella parte superiore e delle grossolane cuciture in evidenza sulle maniche e sui lati. Era troppo largo per lui e, abbinato alla sua carnagione chiarissima, lo faceva sembrare magro e malaticcio, e molto più piccolo della sua età.
Si alzò e, nel momento in cui toccò il pavimento gelido, rabbrividì.
Si guardò attorno, era certo di dover mettere qualcosa ai piedi, ma non ricordava esattamente cosa. Lì, vicino al letto c’erano delle calzature fatte di stringhe intrecciate. Le infilò e le sue labbra si piegarono in una smorfia, mentre tentava senza successo di adattarne la forma al suo piede.
Rassegnato fece qualche passo poco convinto.
La pietra era decisamente fredda e umida, per nulla piacevole, e quelle strane suole erano meglio di niente.
Provò a saltellare come un bimbo ai suoi primi passi che sperimenta la sensazione del terreno sotto i piedi, ma un capogiro lo costrinse ad appoggiarsi al muro. Ormai era sempre più convinto di essere stato malato, anche se non se ne ricordava.
Si trascinò fino all’ingresso e sbirciò attraverso la tenda lacera che lo separava dal locale attiguo e, in effetti, vide una donna affaccendata attorno ad una specie di forno.
“Mamma!” quella parola gli scivolò dalle labbra come un soffio.
La donna si voltò. Aveva un aspetto duro e i lineamenti irrigiditi in una smorfia che era un misto di severità e disgusto.
“Era ora.” Grugnì. “Tuo padre ti sta aspettando, devi aiutarlo a sistemare il carretto.”
Lui la fissò inebetito, c’era qualcosa di tremendamente stonato in quella situazione che gli era familiare, ma in modo insolito, come se la donna che gli stava di fronte fosse la materializzazione del sogno che aveva appena fatto.
“Mamma!” pigolò di nuovo.
“Ma sei sordo o stupido?” gridò l’altra, “Ti ho detto di muoverti, o preferisci che venga tuo padre a prenderti per i capelli?”
Il ragazzino rabbrividì. Si precipitò verso il letto e si sporse al di sopra di quello per afferrare il mantello che pendeva da un chiodo nella parete. Lo guardò per un attimo chiedendosi se lo avesse mai indossato prima, poi scosse il capo e, gettandoselo sulle spalle, puntò dritto verso l’uscita.
Scese rapidamente una ventina di scalini.
Non era sicuro di dove l’avrebbero portato, ma sapeva che quella era la strada giusta.
La sua casa era stata costruita con grossi sassi squadrati su uno spuntone roccioso in mezzo ad una pianura. In lontananza si vedeva un grande cratere, al centro del quale la città di pietra si innalzava come un pilastro, una gigantesca colonna traforata, più stretta alla base. Pareva sostenere a stento la volta, come un cielo nero che incombeva su ogni cosa, minaccioso e soffocante.
Si fermò ad osservarla: la città era circondata da una fitta nebbia che, riflettendo il chiarore verdastro del sole, le donava un aspetto sinistro e irreale.
Alle sue spalle, dietro la piccola casa, si snodava la grande via delle carovane, costeggiata, a sinistra, dalla catena delle Dodici Dita e, a destra, dal mare dei cristalli. All’orizzonte sulla fitta distesa di stalagmiti della foresta pietrificata si levavano maestose le mura della Città del Sole. Era da lì che la luce si irradiava in tutto il mondo sotterraneo. Era costruita su un altura perciò era visibile anche da grande distanza.
Quella città era un luogo proibito per quelli della sua casta. Solo ai Discendenti era permesso abitare all’interno della fortificazione. Ma lui l’aveva visitata assieme a suo padre, almeno, doveva essere così, visto che ricordava di aver visto l’interno, ricordava di aver visto il sole.
Suo padre era un fabbro e gli artigiani in città erano molto richiesti e apprezzati, e, nonostante il suo fosse un lavoro duro, gli permetteva di offrire alla propria famiglia una vita dignitosa, lontano dalle miniere.
Giunto in fondo alla scala il ragazzo si guardò attorno, poi, lasciandosi guidare dal forte rumore metallico, raggiunse un uomo tozzo e muscoloso che si affannava per raddrizzare la ruota di un piccolo carretto di ferro a colpi di martello. Il frastuono provocato dalle martellate era davvero fastidioso, i colpi amplificati dalle pareti in quello che assomigliava ad un laboratorio artigiano gli arrivavano fin nelle ossa rimbombandogli nella testa e nel petto.
Strinse i denti e non disse nulla, mentre lo sguardo passava in rassegna gli oggetti di metallo di varie forme appesi alle pareti. Oggetti di uso quotidiano, come pentole e attrezzi, ma anche armi e armature.
Poi suo padre sollevò lo sguardo. Lo studiò come se stesse tentando di pesarlo con gli occhi, o forse di misurare la sua forza.
Le labbra dell’uomo si arricciarono in maniera inquietante e un brontolio di disapprovazione sfuggì dalla sua gola.
Era evidente che quel ragazzino smilzo non era la persona che avrebbe voluto come aiutante. Ma era suo figlio, almeno lui era certo di questo. La mente gli diceva che era così, eppure non riuscì a non provare uno strano senso di repulsione quando il massiccio individuo gli si avvicinò porgendogli un pesante martello.
“Qui, vedi come convergono le ruote?” Disse indicando i due grossi cerchi di ferro arrugginito. “Le voglio sistemate prima di pranzo.” ordinò.
Un’espressione pericolosamente in bilico fra incredulità e rabbia si disegnò sul volto del ragazzo, ma il buonsenso gli suggerì che non era il caso di discutere con quell’uomo. Afferrò l’attrezzo che l’altro gli porgeva. Era pesante, tanto che il braccio cedette sotto quel carico e lui fu costretto ad usare entrambe le mani per evitare di colpirsi il ginocchio col martello. Tuttavia senza lamentarsi si accinse ad eseguire il suo compito.

***

Amauròs richiuse con poco garbo la porta dietro di sé e si avviò con sicurezza verso l’antico sedile. Vi si lasciò cadere distrattamente, abbandonò il capo all’indietro e chiuse gli occhi.
Diego, che si trovava nella stanza della fonte in fondo alla casa, nel sentir rientrare il suo padrone, si precipitò ad accoglierlo, ma, quando lo vide rilassato sulla sedia, si bloccò e lo fissò in silenzio, incerto se fargli notare la sua presenza o lasciarlo riposare indisturbato.
Fu l’altro a scioglierlo dallo scomodo dilemma.
“L’hai vista?” domandò cupo, senza sollevare il capo o aprire gli occhi del resto completamente inutili.
“Ho visto una ragazza, e poi ho usato l’amuleto per trascinarmi dietro i Segugi, come mi hai insegnato.” rispose il vecchio servitore, mentre la mano correva a stringere il medaglione con incastonata una pietra verde che gli pendeva dal collo rugoso.
“Non era sola.” Continuò l’altro.
Diego si morse il labbro con fare colpevole.
“Mi dispiace, non sono arrivato in tempo per l’altro: gli è praticamente piombato fra le braccia. Lo hanno portato alla Grotta?”
Amauròs annuì.
“La ragazza che hai protetto è sua sorella, lui gridava il suo nome prima di…” la voce si spense in un sospiro.
Ci fu un lungo silenzio, poi il mago si alzò e fece qualche passo avvicinandosi a Diego.
“Sai, il consiglio era convinto che sarebbe stato meglio per tutti se il bambino fosse morto. Un peso inutile l’hanno definito, ed io, per una volta, concordavo con loro.”
“Ma, padrone…” Diego lo fissò con le labbra spalancate.
Amauròs scrollò il capo.
“E’ merito di Freda se ora il fabbro avrà una bocca in più da sfamare, e un ragazzino inconsapevole vivrà una vita che io ho costruito nella sua mente.” Porse il braccio al servitore che lo guidò alla propria spalla.
Non si mossero. Amauròs sembrava voler riordinare le idee. Chinò il capo e socchiuse gli occhi.
D’improvviso un soffio gli uscì dalle labbra:
“Fabian…” il nome del bambino sembrò materializzarsi nell’aria, come se un pensiero fosse sfuggito alla sua mente diventando suono. Il mago parve assaporarlo. Era un nome insolito per quel mondo. Un nome che non avrebbe mai più sentito pronunciare. Ora il ragazzino ne aveva uno più adatto. Un nome che non destasse sospetti.
Si morse il labbro e, con un gesto stizzito, si passò la mano nei capelli.
Era stato lui a suggerire il nuovo nome alla sua mente, e, assieme a quello, gli aveva dato dei nuovi ricordi.
Il consiglio gli aveva chiesto di farlo e lui aveva obbedito. Era ciò che faceva da molti, troppi anni: obbedire.
Diego preoccupato si voltò e lo fissò dal basso in alto, torcendo il capo come uno strano uccello notturno; l’età aveva curvato le sue spalle tanto da costringerlo ad assumere l’insolita posizione ogni volta che guadava in viso il suo padrone. Amauròs parve percepire la sua vicinanza e un sorriso storto gli piegò le labbra.
“Da oggi quel bambino ricorderà un passato inesistente. Chiamerà padre uno sconosciuto e madre una donna sterile. E tutto questo perché a quella vecchia donna si è rammollito il cuore.” Si passò di nuovo la mano sul volto, un gesto nervoso. “Le sue simpatie per i figli del sole ci porteranno alla rovina.” Sbuffò e accennò col capo verso la stanza accanto perché Diego lo accompagnasse. Era in grado di raggiungerla da solo, ma preferiva spesso affidarsi all’altro: la presenza del vecchio lo faceva sentire bene.
“Le tue simpatie per i figli del sole mi hanno salvato la vita, padrone.” ribatté amabile Diego, mentre s’incamminava lentamente.
Amauròs sollevò lo sguardo vuoto verso l’altro e poi scosse il capo.
“Le mie simpatie ti hanno strappato alla tua famiglia, Diego. Non dimenticarlo.” rispose freddo.
Diego non ribatté e Amauròs gliene fu grato. Non voleva parlare del suo passato, aveva cercato in tutti i modi di cancellarlo, aveva persino cambiato nome. Sì, anche lui aveva dovuto cancellare una parte di sé, eppure di alcuni di quei ricordi non avrebbe mai potuto fare a meno. Il volto dell’unica donna che avesse mai amato era sempre là, vivido nella sua memoria come nell’ultimo giorno in cui l’aveva vista. Era un’immagine luminosa che si stagliava rassicurante tra lui e il buio assoluto. Non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via.
“Non capisco perché il Consiglio abbia chiesto a me di condizionare la sua mente. Qualunque altro Discendente avrebbe potuto farlo, Freda per prima,” continuò stizzito.
Lo avevano convocato giorni prima. Geber, un suo vecchio amico d’infanzia, ora membro stimato del consiglio, aveva bussato alla sua porta, chiedendogli di seguirlo. Non era stato difficile immaginarne la ragione, anche se l’uomo non gli aveva dato spiegazioni. “Il consiglio si è riunito.” era stato tutto quello che gli aveva detto.
Giunto alla sala della riunione, infatti, aveva trovato sedici dei diciotto membri che discutevano animatamente: il nuovo arrivato non era quello che si aspettavano.
Un ragazzino era una questione delicata. Nonostante secoli di prigionia in quel mondo oscuro, il loro cinismo non arrivava al punto di cancellare la memoria di un bambino e gettarlo fra gli schiavi senza preoccuparsi di fornirgli i mezzi per sopravvivere.
Per anni la grotta del sonno si era rivelata molto utile ai loro scopi, l’unico modo per preservare il segreto sul mondo della luce. Nessuno doveva sapere della sua esistenza, o perlomeno dovevano crederlo un luogo inaccessibile. Gli schiavi dovevano essere convinti di essere nati li, e il mito della terra luminosa doveva restare tale: una leggenda, una bugia raccontata dai ribelli, pazzi sognatori nonché uomini pericolosi che, per inseguire la loro follia, avevano causato la morte di centinaia di persone.
I Discendenti oltre ai ribelli erano gli unici a sapere la verità sulla grotta e sulle vere origini del popolo degli schiavi, ma erano convinti che il giorno in cui qualcuno fosse riuscito ad attraversare la soglia per tornare nel mondo della luce, una grande catastrofe li avrebbe travolti distruggendo il loro popolo.
La discussione aveva proseguito per diverse ore dopo che Amauros e Geber si erano uniti al consiglio.
Gourias, uno dei più anziani e potenti maghi della città, aveva quasi convinto i presenti che abbandonare il bambino nella Grotta del Sonno sarebbe stata la soluzione migliore per tutti, come se quel luogo di oblio potesse poi cancellare il ricordo del loro terribile crimine. Ma Freda non si era arresa, con l’autorità donatale dall’età, si era imposta su tutti, proponendo la sua soluzione: Fabian avrebbe avuto una famiglia, il fabbro aveva bisogno di aiuto nel suo laboratorio, inoltre, lui e sua moglie vivevano abbastanza lontano dalla cava e avrebbero potuto crescere il bambino in tutta segretezza. Nessuno avrebbe fatto domande, o si sarebbe fermato a chiacchierare con lui, notando così il suo spiccato accento straniero. Nessuno insomma avrebbe scoperto che quel ragazzino biondo non era davvero il figlio del fabbro.
La soluzione era semplice, non restava che un problema da risolvere: una volta che la Grotta del Sonno gli avesse cancellato i ricordi, bisognava dargliene di nuovi.
Amauròs, che fino a quel momento si era tenuto in disparte evitando di schierarsi, era stato chiamato in causa dalla stessa Freda. La vecchia maga non aveva esitato ad indicare lui come quello che avrebbe dovuto manipolargli la mente. Lo aveva incastrato intrappolandolo in una rete intessuta di lodi. Aveva vantato le sue capacità e la sua approfondita conoscenza delle usanze dei figli del sole e del loro mondo, il che lo rendeva, ai suoi occhi, ed, evidentemente, a quelli del consiglio, la persona più adatta all’ingrato compito.
Amauròs aveva tentato in tutti modi di trovare una scusa per rifiutare, ma alla fine non aveva potuto tirarsi indietro. La seduta del consiglio era stata sciolta e lui era stato accompagnato alla Grotta assieme ad un gruppo di guardie e al bambino.
Fabian, che non doveva avere più di dodici anni, continuava a piangere e a chiedere di sua sorella, anche quando, giunto all’ingresso della grotta, l’avevano costretto a scendere all’interno.
Amauròs non aveva mai visitato quella caverna, ma sapeva che nella parte più profonda esistevano una serie di pozzi stretti.
Non erano formazioni naturali, erano stati scavati da una pericolosa e gigantesca creatura che vi nascondeva le sue uova, fino alla schiusa.
Una volta abbandonati, all’interno dei nidi restava qualcosa, un’ energia capace di far cadere quelli che vi si trovavano in una specie di torpore.
Lui e le guardie avevano dovuto attendere tutta la notte, sufficientemente lontani dai pozzi da non subirne l’influsso, ma non abbastanza per non essere tormentati dalle urla disperate di Fabian. C’erano volute parecchie ore perché le grida del ragazzino si quietassero e il sonno avesse la meglio sulla sua paura. Un sonno che gli avrebbe strappato ogni ricordo, lasciandolo vuoto e disorientato.
“L’ho visto, sai?” disse d’improvviso Amauròs, accomodandosi sulla sua sedia preferita, di fronte alla fonte magica. Sui braccioli erano scolpite delle teste di leoni, creature che nel suo mondo consideravano leggendarie. Vi appoggiò le mani seguendone la forma con le dita sottili.
“Visto cosa?” lo interrogò Diego.
“Il sole, l’ho visto nella sua mente. La Grotta non è riuscita a cancellare del tutto quel ricordo. Era bellissimo,” le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso che però fu subito oscurato. “Ma lui ora crederà che sia solo un frutto della sua immaginazione.”
“Padrone, non tormentarti, è stato necessario, dovevate affidarlo a qualcuno: un ragazzino così piccolo non avrebbe potuto sopravvivere da solo, e qualcuno doveva pur farlo.”
“Non è questo il punto.” sbottò. “Ho riempito di bugie la testa di quel bambino. Era indispensabile dargli dei ricordi per permettergli di adattarsi alla sua nuova vita senza traumi, ma non è piacevole entrare in una mente svuotata, non lo è affatto. A volte mi chiedo se valga la pena vivere privati dei propri ricordi.”
“Ne avrà di nuovi, si adatterà.”
“Diego, noi siamo il frutto del nostro passato. Cosa resta di un uomo quando gli strappi le sue origini?”
“Gli resta la vita.” Insisté l’altro.
Amauròs scosse il capo come se fosse stato punto da un insetto.
“I miei ricordi sono la mia vita, per quanto dolorosi, io non vorrei mai che qualcuno me li portasse via per sostituirli con una menzogna.” Era così: sarebbe morto piuttosto che rinunciare al volto di lei, all’unica luce della sua esistenza.
Poi un’improvvisa consapevolezza si fece strada nella sua mente e una ruga gli si disegnò sulla fronte. “Credo che il consiglio ancora non si fidi di me. Immagino che abbiano voluto ricordarmi che la Grotta del Sonno avrebbe dovuto essere la mia condanna se solo non avessero avuto bisogno delle mie conoscenze per i loro scopi.”
“Dopo tutto questo tempo e dopo tutto quello che hai fatto per loro?”
“I membri del consiglio conoscono la leggenda, sanno che una ragazza venuta dalla luce riuscirà a tornare indietro. Tutto lascia pensare che ciò debba avvenire quest’anno.”
“Ma loro non sanno che ad attraversare la porta sono stati in due, loro hanno visto solo il bambino.” Azzardò Diego.
Amauròs s’incupì.
“Il bambino stesso ha rivelato la presenza della sorella. Gridando il suo nome non ha fatto altro che confermare i loro sospetti. Sanno che gli uomini di Guglielmo hanno la ragazza. La cercheranno. Ma soprattutto ora temono che qualche Discendente si unisca ai ribelli come è già accaduto.”
“Sospettano di te, padrone?”
“Dubitano di chiunque abbia avuto a che fare coi ribelli in passato. Il fatto di essere un membro del consiglio non mi mette al riparo dai sospetti.”
“E Freda? Le sue simpatie sono evidenti, perché diffidare di te e non di lei?”
“Freda è una vecchia, e non ha un passato come il mio.”
“La ritengo comunque una leggerezza da parte loro.” borbottò Diego.
Amauròs non trovò argomenti per contraddirlo. In effetti Freda sembrava non preoccuparsi affatto di rendere pubbliche certe sue amicizie. Si recava spesso alla cava, portava cibo e vestiario agli schiavi e si intratteneva a lungo con alcuni di loro.
L’aveva incontrata molte volte recandosi alle miniere per controllare la qualità delle pietre magiche. Era quello il compito che gli era stato affidato dal consiglio. Grazie ai suoi poteri di Geomante poteva percepire l’energia delle pietre, indicare ai minatori dove scavare e saggiare la purezza del materiale estratto semplicemente sfiorandolo con una mano.
Le pietre erano indispensabili per la sopravvivenza di tutti, erano la materia prima che permetteva ai Maghi di creare con la loro energia l’astro artificiale che li manteneva in vita, e non solo.
Ma Freda andava lì per altre ragioni che lui non riusciva a comprendere.
“Domani andrò alla cava.” disse con decisione.
Diego gli rivolse uno sguardo triste.
“Vuoi incontrare la ragazza?” azzardò. “Per quale ragione?”
“Forse curiosità. Nient’altro che semplice curiosità, Diego.”

Edited by Astry - 13/12/2013, 22:21
 
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Camelia.
view post Posted on 16/12/2013, 00:16




Ho iniziato a leggere questa storia, ma stasera non riesco a finirla.
Ci tenevo però a dirti, Astry, che mi ha preso da subito... Come al solito, scrivi in modo molto avvincente!
 
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Astry
view post Posted on 19/12/2013, 16:13




Grazie Camelia, ho proprio bisogno dei vostri pareri, essendo la mia prima originale, non so proprio come regolarmi.


Cap. 8

Kore si svegliò di soprassalto, un odore pungente di muffa le riempiva le narici. Aveva appena fatto un sogno stranissimo: era intrappolata in un mondo sconosciuto e aveva perso il suo fratellino; si sollevo dal letto e si guardò attorno ancora un po’ assonnata.
Una morsa gelida le strinse lo stomaco, e qualcosa di doloroso le bloccò il respiro, mentre continuava a spostare lo sguardo da una parte all’altra della piccola stanza, sperando che ciò che vedeva potesse sparire non appena si fosse destata del tutto. Nulla di quello che aveva intorno si modificò minimamente; tutto era solido e, purtroppo, reale. No, non aveva sognato; quel mondo esisteva davvero e Fabian non era con lei.
Si trovava a casa di Marietta da diversi giorni. La sua ospite non era quasi mai in casa, ma prima di recarsi alla cava ogni mattina le lasciava cibo e raccomandazioni: “non uscire, non far entrare nessuno in casa, non attirare l’attenzione.”
Scese dal letto e corse nell’altra piccola stanza che fungeva da ingresso e cucina; si bloccò sulla soglia appena vide una figura di spalle, ingobbita, e intenta ad osservare il muro che aveva di fronte. Era paludata in un mantello scuro dal quale sfuggivano alcuni lembi sbrindellati di una tunica bianca.
La riconobbe.
“Freda?”
La vecchia donna si voltò e le sorrise mostrando una dentatura tutt’altro che invidiabile; poi tornò a concentrarsi su ciò che stava facendo: aveva in mano un pugnale e, con forza, lo conficcò nella parete dalla quale iniziò a fuoriuscire una sostanza liquida come da una ferita.
Kore si avvicinò e la osservò mentre la raccoglieva in una ciotola. Il liquido era bianco, del colore del latte. Subito un conato di vomito le salì in gola, ripensando alla curiosa cena del primo giorno.
A conferma dei suoi sospetti, Freda si girò di nuovo verso la ragazza e le porse la scodella, ora colma fino all’orlo.
“Hai fame?” Domandò con la sua voce stridente, “Prendi, prendi!”
Kore saltò indietro come se fosse stata punta da uno scorpione.
“Ma che cos’è?” domandò disgustata.
“E’ latte.” Marietta, appena rientrata, le passò davanti e afferrò la ciotola dalle mani di Freda.
“E’ buono, è vero latte.” La rassicurò versandone un po’ in un altro recipiente e offrendolo di nuovo alla sua ospite, “E’ così che Freda ci procura il cibo quando non ci arrivano i rifornimenti dalla Città del Sole. E in questi giorni sono piuttosto in ritardo, probabilmente a causa di tutti i segugi che il consiglio ha sguinzagliato in giro.”
Kore la guardò con gli occhi sgranati.
“Ma è… E’ roccia quella, come… Come fa?” balbettò.
Marietta sorrise. “Lo ruba.”
Le labbra di Kore si spalancarono seguendo l’esempio dei suoi occhi; ormai aveva assunto un’espressione così comica che l’altra non poté fare a meno di scoppiare in una fragorosa risata.
“E’ un metodo che usavano le streghe,” spiegò, “non chiedermi come, ma qualcuno… “accennò con lo sguardo verso l’alto, “al piano di sopra rimarrà senza latte.”
Kore immaginò che per ‘piano di sopra ’, Marietta dovesse intendere il suo mondo. Si augurò che la vittima del furto fosse una mucca, possibilmente sana. Non aveva mai bevuto latte che non provenisse dallo scaffale di un supermercato, ma aveva fame e perciò, pur con riluttanza, prese la ciotola dalle mani dell’altra e sorseggiò quella che doveva essere la colazione.
“Dobbiamo scendere alla cava,” proseguì Marietta, oggi inizierai il tuo lavoro, “ti ho procurato dei vestiti, e qualcosa da mettere in testa per nascondere quel pennacchio.” Indicò il ciuffo biondo che continuava a cadere sugli occhi di Kore.
“Con quelli passerai inosservata. C’è tanta gente qui, ma non particolarmente socievole. Lavorerai con me, quindi saremo vicine. Nessuno ti farà domande e se qualcuno ci proverà, evita di parlare, se non vuoi che il tuo accento ti tradisca.”
“Vedrò Fabian alla cava?” chiese speranzosa.
Marietta e Freda si scambiarono uno sguardo triste.
“Tuo fratello sta bene, ma non è qui.” gracchiò Freda.
“Sta bene? L’ha visto? Dove?”
“Sì, Freda l’ha visto, lei fa parte del consiglio. L’hanno affidato ad una famiglia, ma loro vivono lontano da qui. Per ora dovrai pazientare,” spiegò Marietta, e, avvicinandosi al un mucchio di stracci grigiastri che aveva posato sul tavolo, li afferrò con entrambe le mani.
“Mettiteli!” disse decisa consegnandoli a Kore.
La ragazza scrutò incerta la vecchia tunica, poi iniziò a spogliarsi e, dopo aver ripiegato i suoi abiti, si infilò con una smorfia nel goffo sottanone. Marietta completò l’opera sistemandole una fascia di stoffa scura intorno alla testa, come un turbante, nascondendo la bizzarra creazione del suo parrucchiere preferito. Quando fu pronta, si avviarono tutte e tre verso le miniere.

Giunte sul posto, dovettero farsi largo tra una folla di gente che andava e veniva: alcune donne portavano acqua; altre trasportavano attrezzi e uomini robusti trainavano a braccia delle slitte cariche di massi di svariate forme. L’aria era satura di polvere che, illuminata dallo strano sole di quel mondo, assumeva un colore verdastro. Il rumore dei picconi echeggiava tra le pareti rocciose sommandosi alle voci di centinaia di minatori producendo una fastidiosa cacofonia. Kore continuava a guardarsi intorno, scrutando tra la folla, chinandosi, o sollevandosi sulla punta dei piedi, a volte saltellando persino, per riuscire a vedere meglio ciò che accadeva oltre quella cortina di uomini vocianti. Marietta notò la sua curiosità e rallentò il passo per affiancarla.
“Qui fuori, nella cava, quegli uomini ricavano del semplice materiale da costruzione.” spiegò.
“Ma nella parte più profonda, dentro le gallerie, ci sono le pietre verdi che sono rocce magiche, rare e pericolose.” continuò indicando l’ingresso di alcune gallerie scavate nella parete a strapiombo. “Solo i minatori più esperti si avventurano all’interno, e lo fanno soprattutto di notte perché la luminescenza del nostro sole rende più aggressivi i Vermi delle Grotte. Ecco, vedi? Ora infatti stanno risalendo in superficie: troppo pericoloso restare all’interno.”
Kore si chiese cosa fossero i Vermi delle Gotte e abbassò lo sguardo per assicurarsi che non ci fossero strani animali striscianti vicino ai suoi piedi, quando fu spintonata da un gruppo di bambini; si voltò e vide che avevano attorniato Freda come uccellini al pasto. La vecchia aveva portato con sé dei cesti che, a giudicare dall’impazienza di quei ragazzini, dovevano essere colmi di cose buone da mangiare.
Anche alcuni adulti si erano avvicinati e attendevano il loro turno per avere una minuscola porzione di quelli che sembravano panetti di frutta secca.
“Ogni tanto Freda ci porta dei regali dalla Città del Sole,” disse Marietta, “la frutta qui vale come oro.”
Kore annuì semplicemente, seguendo l’altra sino ad un piccolo spiazzo recintato.
“Ecco, il nostro compito è selezionare le pietre verdi.” spiegò la sua guida accennando ad un gruppo di donne chine a frugare fra quelle che, ad una prima occhiata, parevano inutili macerie.
Kore aguzzò lo sguardo: il suolo era cosparso di detriti, rocce di diverse forme e colori, ma le donne stavano scegliendo alcuni sassi particolari fra tutti quelli che i minatori continuavano a scaricare in terra. Li riponevano in sacchi che avevano legati alla vita e poi, quando erano colmi, li svuotavano in delle grosse casse di metallo provviste di ruote.
Kore si avvicinò alle casse: all’interno c’erano molte pietre di colore verde smeraldo; ogni cassa ne conteneva di dimensioni diverse, le più grandi erano simili a palle da tennis, le piccole, incredibilmente lucide e levigate, avrebbero potuto essere incastonate in un anello.
Marietta nel frattempo si era cinta i fianchi con una cinghia dalla quale pendevano tre sacche rigide di pelle e ne porse una anche a Kore che la imitò. Le consegnò anche una striscia di stoffa e le mostrò come avvolgerla sulle mani come protezione; poi entrambe iniziarono il loro lavoro che proseguì per diverse ore.
D’un tratto Freda, che si era accomodata in un angolo intrattenendo alcuni bambini, si alzò fissando un punto lontano. L’espressione della vecchia maga si era fatta cupa, il volto cosparso di rughe si era irrigidito in una maschera che Kore non riuscì a capire se di collera o di paura. Seguendo lo sguardo dell’altra individuò l’oggetto del suo interesse: un uomo, vestito di bianco, proprio come Freda, si stava avvicinando accompagnato da un'altra persona, curva e malvestita, che doveva avere almeno ottant’anni.
Al loro passaggio la gente che affollava quel luogo si allontanava con la stessa rapidità di un branco di pesciolini. Gli stessi, che solo qualche ora prima avevano circondato la vecchia Freda in attesa dei suoi doni, ora parevano voler mettere più distanza possibile tra sé e i nuovi arrivati.
Tuttavia qualcuno andò incontro ai due con passo sicuro, scambiò con loro qualche parola e poi si voltò nella direzione di Kore facendo degli ampi gesti con le braccia.
Subito alcuni minatori entrarono nel recinto in cui si trovavano le donne e spinsero fuori le casse piene di pietre verdi. Un ragazzino smilzo li raggiunse, portando sulle spalle un tappeto molto vecchio che srotolò ai piedi dell’uomo vestito in bianco, e lo aiutò perché ci si sedesse sopra.
Kore si guardò attorno: tutti gli altri, compresa Marietta, dopo aver rivolto uno sguardo distratto ai visitatori, avevano ripreso il loro lavoro; era evidente che non consideravano insolito l’arrivo dei due uomini. Tutti tranne Freda che continuava a fissarli come un gatto che ha appena individuato la sua preda.
Per Kore, dopo essere stata impegnata per diverse ore in quel duro lavoro senza una pausa, quella piccola novità fu un piacevole diversivo. Si pulì le mani nella tunica e si avvicinò a Marietta sperando che lei potesse soddisfare la sua curiosità.
“Chi è quello?” chiese accennando col capo all’uomo seduto in terra, intorno al quale, nel frattempo, erano state svuotate le casse.
“Lo chiamano Amauròs, viene qui a controllare la qualità delle pietre magiche,” rispose l’altra asciugandosi il sudore con la manica del vestito, “il vecchio che sta con lui è il suo servitore.”
Lo sguardo di Kore passava alternativamente dai due a Freda.
“E’ un mago?” chiese sottovoce, poi indicò la vecchia donna, “E’come lei?”
“Sì, Amauròs è un Discendente e molto potente a quanto dicono. Ma io, fossi in te, starei alla larga da lui. Girano strane voci sul suo conto.”
“Strane?” Kore la fissò con gli occhi spalancati. Era chiaro: Marietta non sapeva che il miglior modo per destare il suo interesse era dirle di tenersi alla larga da qualcosa o qualcuno. Ed ora, Kore era più che mai intenzionata a saperne di più sullo strano visitatore.
Si voltò e, fingendo di rimettersi al lavoro, si avvicinò al recinto. Da quella posizione riusciva a vedere meglio l’uomo che, seduto sul tappeto con le gambe incrociate, teneva le braccia protese in avanti coi palmi rivolti verso le pietre sparse attorno a lui, come se fossero brace ardente e lui volesse scaldarsi.
Kore, che aveva ricominciato la raccolta senza dedicarvi però particolare attenzione, prese una pietra e se la rigirò tra le dita: non emanava calore, anzi, sembrava normalissima roccia, a parte l’insolito colore verde. La infilò nella sacca che aveva legata in vita, e aguzzò meglio lo sguardo concentrandosi sul volto dello sconosciuto.
Sembrava teso e anche affaticato, qualunque cosa stesse facendo doveva richiedere un certo sforzo. Aveva la carnagione bianchissima così come i capelli che gli ricadevano sulle spalle; gli occhi erano scuri, fissi nel vuoto, sembrava una statua di marmo.
Il mago restò in quella posizione per diversi minuti poi, quello che Marietta aveva indicato come il suo servitore, si inginocchiò accanto a lui. Era un omino pelle e ossa, dalla carnagione olivastra e il volto, ben rasato, era segnato da una ragnatela di piccole rughe. I capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle curve avvolgendosi in piccoli riccioli. Porse all’altro un bastone e con quello Amauròs colpì alcune delle pietre, facendole rotolare lontano da sé. Le restanti furono raccolte dai minatori e riposte di nuovo nelle casse. Infine il mago si rimise in piedi.
Kore immaginò che le pietre colpite fossero quelle da scartare. Forse non erano abbastanza potenti o erano difettose, ammesso che una pietra magica potesse essere difettosa.
Era ancora persa in questi pensieri quando un boato scosse le pareti della cava. Gli occhi di tutti corsero istintivamente verso l’alto, attirati dalla fonte di quel rumore.
Una nuvola di polvere si era sollevata dalla parete rocciosa, mentre grossi massi si staccavano iniziando a precipitare al suolo.
Un grido disperato si levò dalla gente che si trovava al di sotto della frana. D’istinto tutti si portarono le mani sulla testa in un inutile tentativo di proteggersi e Kore si coprì gli occhi e trattenne il respiro preparandosi all’inevitabile tragedia. Tuttavia le grida si zittirono quasi immediatamente, e un silenzio irreale calò su quel luogo.
Le mani di Kore scivolarono sul suo viso, incerte e tremanti, lasciandola libera di guardare, ma pronte a tornare al loro pietoso compito se la vista fosse stata troppo dolorosa.
Ciò che vide la lasciò senza fiato: centinaia di uomini fissavano allibiti i massi che si erano distaccati dalla parete a molti metri al di sopra delle loro teste. Sembravano sospesi nel vuoto, come se il tempo, per la montagna, avesse preso a scorrere più lentamente. Le pietre non avevano fermato la loro caduta, ma stavano raggiungendo il terreno lasciando, ai minatori tutto il tempo di allontanarsi.
In silenzio e in punta di piedi come se temessero di rompere quell’incanto, i minatori si misero al sicuro.
In mezzo alla folla, l’uomo che Marietta aveva chiamato Amauròs, se ne stava immobile, pareva in trance, con le mani congiunte a formare una sorta di sfera. Kore capì che quello che stava accadendo era in qualche modo dovuto a lui, forse era una magia, forse un’illusione. In ogni caso era chiaro che l’uomo fosse concentrato e che distrarlo, o svegliarlo dal suo stato di trance, avrebbe significato far precipitare i massi sulla folla.
Quando le prime pietre raggiunsero il mago, erano tutti abbastanza lontani. Le pietre si posarono su di lui con la leggerezza di una piuma, scivolando sulle sue spalle per continuare la loro strada fino a terra. Ai suoi piedi si era già accumulata una quantità di rocce tale da arrivargli all’altezza della coscia, ma il peggio doveva ancora accadere: un masso più grande degli altri incombeva proprio sopra la sua testa. Kore non ebbe il tempo di formulare alcun pensiero, che udì la voce di Marietta alle sue spalle: “Lo schiaccerà.”
Marietta aveva ragione: indipendentemente dalla lentezza con cui l’avrebbe raggiunto, quel masso era troppo grande per scivolare innocuo sulla schiena del mago. Quel peso l’avrebbe svegliato, spezzando il sortilegio e Amauròs non avrebbe avuto il tempo di scansarsi.
L’anziano servitore, che si era allontanato con gli altri, resosi conto del pericolo, si precipitò verso il suo padrone, ma qualcuno lo anticipò. Kore lo riconobbe: era Guglielmo.
Il capo dei ribelli si era fatto largo tra la folla e, scansando bruscamente il vecchio, corse verso Amauròs e si gettò su di lui, spingendolo il più lontano possibile dalla traiettoria del masso. Finirono entrambi a terra, l’incantesimo si ruppe e l’enorme pietra si schiantò al suolo con un boato a pochi passi da loro, sollevando una gran quantità di polvere.
Ci volle un po’ prima che la nuvola verdastra si diradasse e, in quel tempo che sembrò interminabile, tutti restarono col fiato sospeso in attesa di conoscere la sorte dei due uomini.
Lo sguardo di Kore si posò su Freda. La strega fissava la scena con un’espressione che la fece rabbrividire. Era forse terrorizzata come gli altri per ciò che era appena accaduto? Forse era in pena per Guglielmo, il che era abbastanza normale, dato che i due dovevano conoscersi piuttosto bene. Ma allora perché il suo sguardo era così gelido?
D’un tratto la vide sussultare e non tardò a comprenderne la ragione: qualcosa si stava muovendo dietro un cumulo di pietre. Sentì la folla emettere un grido di sollievo, quando, da sotto i detriti, spuntò la mano, seguita dal resto del corpo di Guglielmo.
L’uomo si sollevò sulle braccia e si scrollò di dosso la polvere come avrebbe fatto un grosso cane. Poi afferrò per un lembo della tunica il mago che era sdraiato sotto di lui e lo sollevò di peso finché quello non si ritrovò inginocchio. Amauròs ansimava, sembrava piuttosto stordito, barcollò in avanti e Guglielmo dovette afferrarlo per le spalle per impedirgli di cadere. Non era ferito, ma era chiaro che l’incantesimo doveva avergli prosciugato tutte le energie. Tuttavia, non appena ebbe ripreso un po’ di forza, scansò con stizza la mano di Guglielmo e si alzò da terra.
Per un attimo sembrò annusare l’aria, muovendo il capo come se cercasse qualcosa, poi spalancò le braccia con il gesto ampio e repentino di chi sta aprendo una tenda, e, davanti a lui, le pietre si mossero come se una gigantesca ruspa le spingesse, accumulandole sui lati in modo tale da formare un sentiero perfettamente livellato.
Kore non ebbe il tempo di realizzare che il passaggio andava dritto verso il punto in cui si trovavano lei e Freda, che il mago le raggiunse con passo deciso.
Si bloccò a meno di un metro dalla vecchia donna.
“Non provarci mai più!” soffiò.
L’altra gli rivolse un sorriso sghembo.
“Io non ho fatto nulla. Le cave sono pericolose, gli uomini qui rischiano la vita ogni giorno.”
Amauròs sorrise a sua volta e poi voltò appena il capo nella direzione di Kore. Solo in quel momento la ragazza si accorse che non c’era luce nei suoi occhi: l’uomo era completamente cieco. Non poteva vederla, eppure avere le sue iridi nerissime puntate addosso la fece sentire a disagio, tanto da costringerla ad abbassare lo sguardo.
“Hai una nuova amica?” Disse infine il mago con una voce di seta.
Kore rabbrividì: come faceva a sapere che c’era una donna accanto a Freda?
“Ma come?” scattò.
Dimentica delle raccomandazioni di Marietta si era lasciata sfuggire le parole dalle labbra, bloccandosi immediatamente, non appena aveva sentito la mano di Freda posarsi sul suo braccio.
La donna la spinse dietro di sé, come a volerla nascondere, ma era troppo tardi.
“Giovane, ha una voce graziosa,” constatò amabile il mago. Parlava lentamente, come se assaporasse le parole.
“Ma ha un accento insolito,” aggiunse, mentre le sue labbra si piegavano sempre di più. Poi tornò a rivolgersi a Freda.
“Un accento che ho già sentito… non vuoi presentarmela?”
“I miei amici non ti riguardano, cieco!” gracchiò Freda, “E di amici ne ho molti, faresti bene a non dimenticarlo.”
“Oh, allora immagino che sarebbero in tanti a dispiacersi se dovesse accederti un … incidente.” disse portando le dita al medaglione.
Chinò il capo in segno di saluto e, porgendo il braccio al suo servo che nel frattempo si era avvicinato, fece per andarsene, ma si voltò di nuovo.
“A proposito dei tuoi amici, porta pure i miei ringraziamenti a Guglielmo e avvertilo che, se continuerà a capitarmi davanti agli occhi, potrei dimenticarmi di essere cieco ed esprimergli la mia gratitudine pubblicamente, magari in presenza del consiglio.”
Quindi si lasciò guidare verso la monumentale scala di pietra che lo avrebbe ricondotto in città.
Kore seguì i due uomini con lo sguardo finché non sparirono all’interno di un grande arco.
Sapeva che da lì avrebbero raggiunto la galleria, la stessa lungo la quale l’aveva accompagnata Ranuccio al suo arrivo: un percorso scavato nella roccia che, inerpicandosi come una spirale, arrivava, forse, a toccare la volta di quello strano mondo.
Kore non poté fare a meno di chiedersi quanto in alto si sarebbero spinti i due uomini.
La casa dove era stata portata al suo arrivo era abbastanza vicina alla cava, ma più si saliva e più la città doveva essere grande, simile ad un gigantesco formicaio, e attraversata da miriadi di cunicoli che si ramificavano a formare un intricato labirinto. Chissà se suo fratello si trovava in una di quelle case?
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da Marietta che l’afferrò per le spalle e la costrinse a voltarsi senza tanti complimenti.
“Fare due chiacchiere con uno dei membri più pericolosi del consiglio è la tua idea di ‘passare inosservata’?”
“Ma io… è stato lui, lui è venuto qui.” tentò di giustificarsi Kore.
“Ti avevo detto che dovevi tenerti lontana da quell’uomo!” continuò trattenendo a stento la collera.
“Ma perché? Lui sa di Fabian, ormai è chiaro che mi ha riconosciuta. Forse potrei scoprire dove si trova.”
“Non ne hai bisogno, noi sappiamo benissimo dove si trova. Freda l’ha visto, ma, come ti abbiamo spiegato, per ora non è possibile raggiungerlo.”
Kore chinò il capo e prese a maltrattarsi le mani.
“Cosa succederà ora? Mi denuncerà? Verranno a cercarmi qui?” pigolò.
“No, finché resti alla cava sei al sicuro. I Discendenti non oserebbero mai prenderti con la forza qui. Nonostante i loro poteri, sanno che inimicarsi il popolo delle miniere non è consigliabile. Siamo troppi e siamo necessari.” spiegò.
Poi il suo sguardo fu attirato dal ragazzo che si stava avvicinando di corsa e le sue labbra si piegarono in una smorfia.
“Ehi! A quanto pare mi sono perso un po’ di movimento. Ho sentito un gran frastuono e mi sono precipitato per vedere cos’era successo.” cinguettò gioioso Ranuccio e, abbracciando Marietta, la salutò con uno schioccante bacio sulla guancia.
Marietta ricambiò con un’occhiataccia di rimprovero, che il giovane finse di non notare.
“Allora, ragazze, è vero quello che stanno dicendo?” domandò accennando ai gruppetti di minatori che, poco lontano da lì, erano intenti a parlottare fra loro, “Stavamo per perdere il nostro mago preferito?” continuò sarcastico.
Il suo viso assunse un’espressione così comica che Kore non poté fare a meno di sorridere; ma il forzato buonumore del ragazzo, che tentava di sdrammatizzare, non sortì l’effetto sperato, né su Marietta, che gli rivolse uno sguardo di commiserazione, né tanto meno su Freda che si allontanò sbuffando. Ranuccio sospirò sollevando le spalle e decise di cambiare discorso: “Bertone oggi si è superato, ci aspetta una zuppa favolosa. Andiamo!” disse prendendo per mano Kore e guidandola verso il luogo in cui si era formata una piccola fila.
La ragazza immaginò che lì distribuissero il pranzo e, dato che aveva una gran fame, non ci pensò due volte prima di seguirlo.
 
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Camelia.
view post Posted on 22/12/2013, 00:54




Bello anche il secondo capitolo :)
Vorrei poter leggere tutto di fila, ma queste giornate sono un po' frenetiche.

Mi piace il modo che hai di far capire le cose a poco a poco, è molto coinvolgente (e rende difficile rinunciare a proseguire!).
 
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Astry
view post Posted on 22/12/2013, 13:54




CITAZIONE (Camelia. @ 22/12/2013, 00:54) 
Bello anche il secondo capitolo :)
Vorrei poter leggere tutto di fila, ma queste giornate sono un po' frenetiche.

Mi piace il modo che hai di far capire le cose a poco a poco, è molto coinvolgente (e rende difficile rinunciare a proseguire!).

Acc. se sei al secondo capitolo mi sa che dovrò postare più lentamente. Aspetto che la storia entri nel vivo per conoscere le tue impressioni.... per ora siamo ancora ai preliminari :)
 
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Camelia.
view post Posted on 23/12/2013, 03:01




Eh, scusami, ma questi giorni pre-natalizi non lasciano molto tempo libero (non che quelli post-natalizi saranno da meno).

Ho già letto altre tue ff e non mi hanno mai delusa :) , non aspettare i miei comodi per postare!
 
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Astry
view post Posted on 11/1/2014, 21:49




Cap. 9



Era passato un mese, Kore non aveva avuto notizie di suo fratello e cominciava ad essere impaziente; ogni giorno, con Marietta, si recava alla cava a lavorare come tutti gli altri. Ed ogni giorno sperava di scoprire qualcosa su Fabian e sul modo di tornare a casa.
Speranza che, fino a quel momento, si era rivelata vana: le giornate alla cava trascorrevano fin troppo tranquillamente e Kore non poté fare a meno di chiedersi se i ribelli esistessero davvero.
Dopo l’incidente che l’aveva coinvolto, Guglielmo non si era più fatto vedere. Forse se ne stava rintanato nel proprio rifugio in città nel timore che Amauròs avesse riferito al consiglio circa la sua presenza tra gli schiavi. Neppure il mago si era più visto mentre il vecchio servitore, tutti i giorni, faceva visita ai minatori per controllare il carico di pietre e riferire eventuali indicazioni del suo padrone.
Kore, seguendo il consiglio di Marietta, non rivolgeva la parola a nessuno, ma ascoltava con molto interesse le chiacchiere e i pettegolezzi dei minatori. Specialmente durante i pasti, quando si radunavano intorno a Bertone e al suo pentolone fumante.
La pausa per il pranzo, infatti, sembrava essere l’unico momento di convivialità che spezzava la monotonia della vita dei minatori.
Durante il pasto tutti si abbandonavano a lunghe conversazioni e le donne, di solito espansive come api operaie indaffarate, si scioglievano in piacevoli ciarle.
Altre volte nascevano dei diverbi, anche piuttosto violenti, che potevano sfociare in una rustica scazzottata. Kore ascoltava i loro discorsi in silenzio. Si avvicinava ad un gruppetto di lavoratori, e rimaneva con l’orecchio teso sperando ogni volta di sentirli parlare di qualcosa che non fosse il menù del giorno.
Ormai conosceva tutti i piatti migliori di Bertone, anche senza averli assaggiati: il pranzo era, infatti, l’argomento più dibattuto. Fortunatamente, però, oltre ad aver scoperto che il brodo di 'carillo', uno strano animale che Kore faticava ad immaginare, era considerato da tutti una prelibatezza, tra una battuta goliardica e un litigio era riuscita ad ascoltare anche qualche discorso interessante.
Era venuta a sapere che il servo di Amauròs si chiamava Diego e che sul suo padrone e sulla sua menomazione, negli anni, erano nate molte storie.
Il mago non era nato cieco ma si raccontava che lo fosse diventato guardando il sole. Tuttavia, quando e in quale circostanza ciò fosse avvenuto restava un mistero. Alcuni narravano di come lui fosse l’unico ad essere riuscito ad attraversare una soglia, un passaggio verso un altro mondo, e che il calore insopportabile della gigantesca sfera di fuoco, sospesa nel cielo di quella strana terra luminosa, lo avesse costretto a tornare indietro. Secondo altri l’uomo era divenuto cieco nel tentativo di impedire ad alcuni schiavi di fuggire attraverso quello stesso passaggio. Altri ancora sostenevano che non esistesse nessuna alcuna soglia e che la cecità dell’uomo fosse dovuta ad un semplice incidente avvenuto nella città del sole. Qualcuno azzardava addirittura che fosse una punizione degli Dei.
Era indubbio che quella gente fosse all’oscuro di molte cose, ma la soglia esisteva, Kore lo sapeva, e Amauròs evidentemente, ne conosceva i segreti.
Il desiderio di incontrarlo si fece sempre più insistente nella sua mente.
I discorsi dei minatori l’avevano convinta che il mago potesse essere l’unico in grado di farla uscire di lì; l’unico capace di trovare la porta che l’avrebbe ricondotta a casa.
Sapeva che Marietta non le avrebbe mai permesso di parlare con lui: secondo lei avrebbe dovuto fuggire da quell’uomo piuttosto che cercare di conoscerlo, ma l’unica alternativa che le aveva offerto era un’inutile e snervante attesa.
Kore si era fidata della giovane donna che l’aveva accolta. Aveva seguito tutte le indicazioni della sua ospite: aveva accettato di restare in silenzio e di lavorare senza chiedere niente, nell’illusione di avere una notizia, di vedere agire quegli uomini che Marietta definiva ribelli, e che, invece, avevano solo imparato a nascondersi. Per giorni, aveva atteso invano un segno qualunque che potesse alimentare la sua speranza di rivedere Fabian, mentre la vita scorreva pigra e monotona nelle miniere, e nulla faceva presagire un minimo cambiamento.
Non poteva più aspettare, doveva rischiare, e lo avrebbe fatto a modo suo.
Lo sguardo della ragazza seguì Marietta mentre tentava di farsi largo tra la folla per avere la propria razione di minestra.
La donna sembrava ormai del tutto a suo agio in quel mondo e, nella mente di Kore, si era ormai insinuato il dubbio di non poter avere alcun aiuto da lei; Marietta aveva riposto le sue speranze in Guglielmo, speranze che si erano rivelate vane. Aveva trascorso lì metà della sua vita, senza essere riuscita a salvare sé stessa, e, ormai era chiaro, non sperava più di tornare a casa. Kore immaginò che non le importasse più, forse aveva persino dimenticato cosa volesse dire vivere alla luce del sole.
‘Un giorno rivedrai tuo fratello’, così aveva detto.
“Un giorno…” mormorò Kore tra sé, e le dita si strinsero con rabbia.
Marietta era ormai lì da vent’anni, e non aveva fatto altro che raccomandarle prudenza. Le aveva detto di non parlare della soglia e di non chiedere notizie del fratello.
‘Sta bene’, era tutto quello che le aveva detto; ma a Kore non bastava più.
“Un giorno…” disse ancora trattenendosi a stento dal gridare quelle parole. Forse quel giorno non sarebbe mai arrivato e lei, come Marietta, avrebbe dovuto rassegnarsi alla sua nuova vita.
Al solo pensiero rabbrividì.
No, lei non si sarebbe mai arresa senza lottare; piuttosto si sarebbe affidata al proprio istinto, rischiando fino in fondo per rivedere Fabian e accertarsi personalmente che fosse salvo.
Le avevano anche detto che il bambino non l’avrebbe riconosciuta; forse era vero, o forse si sarebbe ricordato di lei se l’avesse incontrata, ma non le importava. Doveva essere certa che fosse vivo e poi avrebbe fatto di tutto per riportarlo a casa, da sua mamma. Lei era la sorella maggiore, lei doveva salvarlo, o perdersi definitivamente con lui.
‘Amauròs’, quel nome continuava a rimbombarle nella testa. Qualcosa le diceva che ricorrere al mago poteva essere l’unica soluzione; era rimasta affascinata dalla potenza della sua magia, dalle sue parole, persino l’atteggiamento che aveva avuto nei confronti di Freda.
Forse avrebbe solo peggiorato la sua situazione: se Amauròs l’avesse consegnata al consiglio, o se l’avessero trovata i segugi, anche lei avrebbe dimenticato il suo mondo, avrebbe dimenticato di avere un fratello e avrebbe trascorso il resto della vita sotto terra, raccogliendo pietre verdi.
Era un rischio enorme, lo sapeva, e sapeva anche che, probabilmente, la sua decisione di chiedere aiuto ad Amauròs era dettata solo dalla disperazione: aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa, altrimenti sarebbe impazzita, e il mago rappresentava l’unica fiammella di speranza in quel mondo notturno.
Sarebbe andata da lui e gli avrebbe chiesto aiuto, l’avrebbe supplicato, forse avrebbe persino potuto dagli qualcosa in cambio. Dopotutto lei conosceva il nascondiglio di Guglielmo in città.
Il pensiero di tradire chi l’aveva accolta la nauseò, ma era certa che, se fosse stato necessario, sarebbe stata pronta a tutto pur di salvare Fabian e sé stessa.
Certa ormai della sua decisione, ora doveva trovare il modo di incontrare il mago. Non era semplice avvicinarlo: erano giorni che non si faceva vedere alla cava e lei non poteva certo avventurarsi in città da sola senza neppure sapere dove trovarlo.
Aveva bisogno di aiuto, qualcuno che potesse accompagnarla da lui, che conoscesse il segreto che nascondeva e, soprattutto, qualcuno che non avrebbe riferito il suo piano a Marietta.
Quell’uomo si trovò a passare proprio davanti a lei.
I minatori erano riuniti attorno al pentolone, colmo di una sostanza gelatinosa e giallognola che Bertone continuava a voler definire zuppa, quando Diego la superò; ricevuta la sua razione, e incurante delle proteste e dei borbottii dei minatori che attendevano in coda da almeno mezz’ora, si allontanò per andare, come sempre, a consumare il pranzo in disparte.
Kore lo seguì.
Marietta e Ranuccio erano intrappolati nella fila ad attendere il loro turno per mangiare, e non fecero caso alla ragazza che, intanto, aveva raggiunto il vecchio seduto su una sporgenza rocciosa, proprio all’ingresso di una delle gallerie.
“Mi hanno detto che il tuo nome è Diego.” esordì la ragazza, tentando di apparire sicura e determinata rivolgendosi al vecchio servitore come aveva sentito fare da altri.
L’altro sollevò lo sguardo e la scrutò stupito per un po’; finché non decise di rispondere.
“Quello è il mio nome,” disse, mentre tornava a rivolgere la sua attenzione alla ciotola che teneva tra le mani. “E tu, invece, sei quella che un nome non ce l’ha.” mugugnò con la bocca piena di minestra.
“Io mi chiamo…”
“No!” Il vecchio alzò la mano interrompendola, “Non mi riguarda. Io sono solo un servo e tu non dovresti essere qui. I tuoi amici non sarebbero d’accordo.”
“Ma il tuo padrone forse sì.” insisté Kore.
Ci fu un lungo silenzio. Una nuova ruga si formò sulla fronte del vecchio, mentre sembrava intento a studiare un avversario molto pericoloso.
“Perché il mio padrone dovrebbe essere interessato ad una ragazzina?”
“Forse glielo chiederò quando mi avrai portata da lui.”
Il vecchio posò la ciotola e si alzò.
“La Città di Pietra non è adatta a quelli come te. E il mio padrone non mi perdonerebbe se…” si interruppe e si voltò di spalle scuotendo il capo, “No, lui non approverebbe.” concluse.
Kore si fece più audace e, afferrando l’altro per un braccio, lo costrinse a voltarsi di nuovo. “Io voglio parlarci, ti prego, ho bisogno di lui.”
“E se lui sapesse chi sei e ti consegnasse ai soldati? Non hai paura?” chiese calmo, Diego.
Kore strinse con forza le dita e prese un bel respiro, tremava, ma tentò di non darlo a vedere. Doveva rischiare il tutto per tutto pur di tornare nel suo mondo, e in quel momento il “tutto” per lei era un uomo cieco che, sì, con molta probabilità, l’avrebbe consegnata alle guardie ancor prima di permetterle di varcare la soglia della propria casa. Ma che altra scelta aveva?
Avrebbe desiderato solo mettersi a piangere, ma rispose ostentando una sicurezza non aveva affatto. “Allora, almeno saprò di aver tentato.”
“Tentato?”
Il vecchio la fissò ancora in silenzio, poi un lungo sospiro sfuggì alle sue labbra. “D’accordo, vieni stanotte ai piedi della scala che porta alla città, mi troverai ad aspettarti. E tieniti lontana dall’ingresso delle gallerie, i minatori potrebbero...” L’uomo si irrigidì fissando qualcosa alle spalle della ragazza.
Kore si voltò per vedere cosa lo avesse preoccupato e notò Freda che si era avvicinata lanciando al vecchio un’occhiata infuocata, poi guardò lei con altrettanto disprezzo.
“Non ti hanno insegnato a non dare confidenza agli sconosciuti?” la rimproverò.
“Ma io…” Mentre Kore cercava inutilmente di inventare una scusa credibile, Diego fece un profondo inchino e con voce amabile si rivolse alla donna.
“Mia signora, questa giovane stava solo aiutando un povero vecchio. Le avevo chiesto di portarmi un po’ d’acqua. Non sapevo che fosse la tua serva.”
“Se alla tua età sei ancora in grado di occuparti di un uomo cieco, puoi anche prendere da solo la tua acqua,” gracchiò la maga.
“Certo, mia signora. Perdonami!” L’uomo curvò maggiormente la schiena, ma i suoi occhi vispi non persero di vista il volto raggrinzito di Freda.
La vecchia donna gli voltò le spalle, afferrò Kore per un braccio, e la trascinò incontro a Marietta che, nel frattempo accortasi di quello che stava accadendo, aveva abbandonato il proprio posto nella fila e camminava spedita verso le due donne.
Non appena le raggiunse, Freda spinse in modo brusco Kore verso di lei, tanto che la ragazza per poco non cadde.
“Ti consiglio di non perdere d’occhio la tua protetta, altrimenti ci porterà solo problemi con la sua sconsideratezza,” soffiò.
Marietta guardò Kore e poi di nuovo Freda; non capiva cosa poteva aver combinato di tanto grave nei pochi istanti in cui l’aveva persa di vista, ma se la maga si era così infuriata doveva avere delle buone ragioni; non disse nulla a Freda, mentre rivolse alla ragazza uno sguardo minaccioso.
Kore rabbrividì, ma nello stesso tempo riconobbe qualcosa di familiare nell’espressione di Marietta. D’improvviso vide negli occhi della giovane donna le stessa luce che aveva visto tante volte nelle iridi celesti di sua madre. Si rese conto di sentire la mancanza persino dei suoi rimproveri. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di riavere indietro le sue assillanti raccomandazioni, le ramanzine ogni volta che il piccolo Fabian combinava qualche marachella. Ora era un’estranea ad occuparsi di lei, a sgridarla quando disubbidiva e a preoccuparsi perché non le accadesse nulla di male, ma la sensazione di sicurezza, che provava ogni volta che sua mamma si avvicinava in silenzio e le accarezzava i capelli con dolcezza, ogni volta che il solo fatto di averla accanto la rendeva spavalda di fronte alle sue piccole sfide da adolescente, quella no, Marietta non avrebbe mai potuto dargliela.
Kore realizzò in quell’istante di essere davvero sola. Se c’erano decisioni da prendere nessuno in quel mondo ostile avrebbe potuto aiutarla, nessuno avrebbe pensato al bene di Fabian. Lei era la sorella maggiore, lei avrebbe dovuto scegliere per lui, e lei aveva scelto. Convinta più che mai di aver preso da decisione giusta, abbassò il capo cercando di mostrarsi pentita.
“Scusa...” mormorò, e, mentre, per il resto della giornata eseguì obbediente tutte le indicazioni della sua ospite, in cuor suo progettava la sua fuga notturna per incontrare il vecchio Diego.

Il sole artificiale si era spento già da diverse ore, quando Kore si alzò dal proprio giaciglio; fece qualche passo in punta di piedi e si fermò sulla soglia ad osservare Marietta che dormiva nell’ingresso. Aveva lasciato il letto, o almeno quello che si ostinava a definire tale, a lei.
Le stanze erano divise da semplici tende, e una tenda le separava dall’esterno. In quel mondo non c’era bisogno d’altro, non c’era vento, se non quello che si formava nei cunicoli, né pioggia e non c’era nulla da rubare. Del resto la porta non sarebbe servita neppure a difenderli dal freddo dato che la temperatura all’interno delle case non era diversa da quella esterna. In un mondo in cui la legna valeva quanto l’oro, non era possibile sprecarla per accendere fuochi; le uniche fiamme che Kore aveva visto da quando era arrivata erano quelle delle lampade o dei fornelli di Bertone, e lei non aveva mai osato chiedere cosa usassero per alimentarle.
Non fu difficile per la ragazza intrufolarsi nell’altro ambiente senza fare alcun rumore, passare davanti alla sua ospite addormentata e raggiungere l’esterno, sgattaiolando silenziosamente attraverso la stretta apertura.
Si afferrò alla corda che fungeva da parapetto e prese a scendere i ripidi scalini. Passò davanti ad un grosso foro nella parete rocciosa: la finestra dell’abitazione di Ranuccio. Gettò un’occhiata all’interno, era buio, ma il russare del giovane rimbombava simile al verso di un grosso animale. Sorrise.
Raggiunta la pianura, puntò dritta verso la grande scalinata che portava alla Città di Pietra, tenendosi a distanza dall’ingresso delle miniere, come le aveva suggerito Diego.
Da lontano poté vedere il movimento delle lucerne dei minatori: un andirivieni continuo, persino più frenetico di quanto non fosse durante le ore diurne. Le pietre verdi che le donne erano chiamate e selezionare venivano raccolte proprio in quelle ore e portate con rapidità all’esterno delle miniere. Il lavoro doveva essere concluso entro l’alba, prima che la luce richiamasse i Vermi delle grotte dalle loro tane.
Kore accelerò il passo, guardandosi indietro di tanto in tanto per controllare che Marietta fosse ancora in casa, profondamente addormentata. Giunta ai piedi della scalinata, si fermò e, strizzando gli occhi, si sforzò di penetrare l’oscurità alla ricerca della sua guida, ma di Diego non c’era traccia.
Kore sentì montare la rabbia. Il vecchio le aveva forse mentito? E se, invece di andarla a prendere, le avesse mandato incontro i soldati? Si appiattì contro la parete, sperando di mimetizzarsi nel buio. Se qualcun altro fosse stato lì ad aspettarla forse così non sarebbe riuscito a vederla.
Era stata una stupida. Ranuccio le aveva detto che i Discendenti non avrebbero osato farle del male davanti agli schiavi, ma di notte, senza testimoni, avrebbero potuto trascinarla via e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Nessuno si sarebbe preoccupato di lei oltre ai ribelli.
Il suo respiro si era fatto affannoso; Kore imprecò mentalmente: non potevano vederla, ma l’avrebbero comunque sentita se non fosse riuscita a calmare i propri polmoni impazziti. Doveva fare qualcosa. Si infilò la manica del vestito in bocca, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Si era messa nei guai, avrebbe dovuto ascoltare Marietta. Come le era saltato in mente di avventurarsi da sola fino all’ingresso della città?
“Tieni, indossa questa.”
La voce familiare sembrò uscire dal nulla, e così la mano che stringeva un medaglione, Kore sussultò spaventata ma, non appena riconobbe il vecchio servitore, fu quasi sul punto di saltargli al collo per il sollievo. L’uomo si avvicinò porgendole la collana e anche una tunica bianca che teneva arrotolata sotto il braccio. Kore afferrò la tunica e se la infilò dalla testa. Poi prese anche la collana rivolgendo al vecchio uno sguardo interrogativo.
“Tiene lontani i curiosi,” disse lui secco.
Kore la indossò, rigirando fra le dita la grossa pietra verde che vi era incastonata: era simile alle rocce magiche che selezionava ogni giorno alla cava, ma sulla superficie vi erano incisi degli strani disegni.
Senza aggiungere altro, Diego iniziò a salire i ripidi scalini sparendo all’interno del grande arco e Kore, abbandonata la sua analisi del medaglione, si affrettò a seguirlo.
Sapeva che li aspettava una faticosa salita: i gradini sembravano arrampicarsi all’infinito. Uniformò il suo passo a quello del vecchio, mentre lo sguardo si muoveva in ogni direzione, scrutando ogni singola fessura e ogni lucerna appesa alle pareti del tunnel.
Di tanto in tanto, delle profonde nicchie si aprivano ai lati della scala; Kore si sporse all’interno di una di queste e vide che in fondo vi erano stati scavati dei fori di forma quadrata, era troppo buio per vederne l’estremità, ma immaginò che dovessero prolungarsi fino a sbucare sulle pareti esterne della grande montagna capovolta. Forse servivano per il passaggio dell’aria.
La galleria era piuttosto claustrofobica, e, per un attimo, Kore fu tentata di infilare la testa in uno di quei canali, immaginando un vento fresco che le avrebbe sfiorato piacevolmente il viso. Ma il vento in quel mondo non esisteva e i canali riuscivano solo a creare una strana corrente d’aria che sapeva di muffa e di umidità.
Quando ebbero percorso almeno un centinaio di scalini, la galleria cominciò a ramificarsi; sulle pareti dei cunicoli si aprivano delle porticine di metallo simili a quella dell’abitazione in cui si nascondeva Guglielmo. Gli stretti vicoli penetravano in profondità nella montagna, come se fossero vene all’interno di un corpo gigantesco, e ad ogni nuova rampa di scale diventavano sempre più numerosi e più ampi.
Salirono per diverse ore, fermandosi ogni tanto per riposare, Kore si stupì del fatto che il vecchio che la precedeva potesse avere ancora tanta forza. Lei era esausta.
Dovevano essere già molto in alto, era certa di aver oltrepassato da almeno un’ora l’abitazione di Guglielmo, e la scala continuava a salire come un’infinita spirale. D’improvviso Diego si fermò, si guardò intorno, poi fece cenno alla ragazza di seguirlo in uno dei vicoli. Kore in un primo momento pensò che Amauròs dovesse abitare in quella strada, ma capì immediatamente che la sua guida stava solo fingendo di entrare in una di quelle case quando, alle sue spalle, comparve il gruppo di vecchie malandate che aveva imparato a conoscere come i “segugi”.
Kore le fissò pietrificata, erano a pochi metri da lei e la stavano guardando; rabbrividì: l’avevano trovata, era troppo tardi per nascondersi; forse avrebbe dovuto mettersi a correre, ma la tranquillità con cui il vecchio Diego le osservava la spinse a restare immobile. Limitandosi a stringere con forza la striscia di stoffa che Marietta le aveva dato per camuffare la sua bizzarra pettinatura, come se temesse che le donne che aveva di fronte potessero strappargliela via con la sola forza del pensiero.
Tuttavia, dopo averle rivolto uno sguardo compiaciuto, le vecchie si allontanarono e Kore si voltò stupita verso Diego.
“Ti hanno scambiata per una di loro,” spiegò, ma non aggiunse altro e, tornando sui suoi passi, riprese a salire.

Edited by Astry - 16/9/2014, 18:27
 
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Camelia.
view post Posted on 14/1/2014, 01:01




Accidenti, il capitolo si interrompe proprio sul più bello!

Ho aspettato di avere abbastanza tempo libero da poter leggere tutti gli ultimi capitoli di fila. Mi piace questa storia, Astry, e sto tifando per Kore! :)
 
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33 replies since 16/11/2013, 00:07   269 views
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