I luoghi del Fantasy

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view post Posted on 26/4/2010, 22:30
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Un bell'articolo da FantasyMagazine di Cristina Donati.

Le Città del Fantastico

Da Tolkien a Vandermeer, passando per Terry Pratchett: uno sguardo sulle città raccontate dagli autori del fantastico



C’è qualcosa di particolare nelle città, qualcosa che le rende ingressi privilegiati per l’Altrove: antichi mondi scomparsi o realtà future più temute che desiderate ci aspettano appena di là da un angolo, dietro un portone anonimo, sotto una scala in ombra.
Proprio per il loro essere pelle a pelle con l’uomo, esse riescono a rappresentare le sue inquietudini più profonde e oscure.

Il fascino — soprattutto delle dark cities — è innegabile, basti pensare a quanti artisti hanno utilizzato uno scenario urbano scifi, gothic, fantasy, horror.
Nell’ambito dell’attuale tendenza urban fantasy, se non ci fosse stata questa esplorazione della città come entità fantastica, le creature fantastiche sarebbero riuscite a calarsi nelle città?

L’uso del contesto urbano come ambientazione protagonista nasce (e continua a evolversi) nella Science Fiction: Ballard e i suoi incubi di cemento, Dick con le distopie crepuscolari, I. Asimov e la città-pianeta Trantor, le tristissime colonie marziane di Bradbury.

Città come sistemi mutanti che nascono, si sviluppano, si trasformano e si ammalano (le enclaves di William S. Burroughs, le Neo-Tokyo dei manga giapponesi/coreani), gli agglomerati urbani tentacolari e disumani all’apice di un sinistro splendore o sopravvissuti a una qualsiasi apocalisse (la Los Angeles di Blade Runner, la New York di IA dove i grattacieli emergono dalle acque come isole verticali, la cittadina di provincia in Io Sono Leggenda) le città chiuse, le città aperte, le tecno-megalopoli sprawl del cyberpunk (Bay City, BAMA, Chiba City), le città delle stelle o quelle al centro della terra, in ogni possibile variante ma… le città fantasy quando arrivano?

In modo diverso e più disordinato, per vie traverse spesso lontanissime fra loro, a un certo punto un vivaio d’immaginario fantasy urbano germoglia come una serra super alimentata.


Le città della memoria: John R.R.Tolkien

Negli anni cinquanta, viene pubblicato Il Signore degli Anelli: le città di Tolkien sono splendidi esempi germinali ma costituiscono solo un frammento dello sterminato mondo secondario dell’autore, nel quale l’ambientazione non è certo limitata all’ambiente urbano. In ogni caso, esse sono lo spunto per buona parte degli scenari del fantasy a venire.
Minas Tirith con le sue mura perfette come le antiche città medievali, Edoras e il Palazzo d’Oro, appartengono alle montagne e alle colline che le circondano, sono una rappresentazione della nostalgia del passato, delle città di pietra e di uomini dove le macchine non hanno ancora formato lo spazio.
Granburrone e Lothlorien appaiono invece ideali luoghi fatati immersi nella natura, con legni intagliati e statue di pietra, al tempo stesso giardini e musei. E ancora, Khazad–dum scavata nel sottosuolo, Barad — Dur dimora di fuoco e tenebre dell’Oscuro Signore, Osgiliath decaduta e in rovina dopo la Grande Pestilenza portata da oscuri venti dell’est.

Città macchina e città giardino, inattaccabili nella loro perfezione di prototipo, sembrano quelle che Italo Calvino chiama “della memoria”: contengono il loro vissuto “negli spigoli delle vie, nei loro alti bastioni”, sono roccaforti ideali a custodia del fantastico del passato e transito obbligato verso la creatività futura, spogliate nel tempo di marmi e mattoni dalle nuove generazioni di autori.


Qarth

Martin e Erikson

Senza tutto questo forse non sarebbero esistite le città e fortezze descritte da George R.R.Martin o Steven Erikson, scrittori innovativi dal punto di vista contenutistico ma affezionati comunque ad ambientazioni classiche (per quanto esplosive dal punto di vista della genialità inventiva).
Approdo del Re, la leggendaria Qarth così simile a Costantinopoli, Nido D’Aquila, Castel Granito e Grande Inverno — per citarne solo alcune — rappresentano le possibili varianti di altrettante fortezze appartenenti a un passato parallelo, sebbene distinte tra loro da scenari occidentali o orientali, mura merlate o strapiombi di roccia, fiumi o distese salate, deserti o verdi colline molto english.

Ogni vicenda deve ovviamente avere un ambiente in cui svolgersi, tuttavia Martin e Erikson fanno un uso differente delle loro città: nel primo esse sono “utili”alla narrazione, con la loro architettura, le loro difese e le loro collocazioni geografiche; nel secondo, possiedono una personalità che in qualche modo si intreccia con i protagonisti, vengono vivificate, sembra che soffrano, si corrompano, siano colpevoli quanto coloro che le abitano (o le infestano).


Ankh Morpork


Jack Vance, China Mièville e Fritz Leiber

Tolkien rappresenta un picco isolato, continuamente copiato e mai eguagliato eppure, quasi contemporaneamente, nasce dell’altro. Jack Vance, nelle sue Terre Morenti inserisce un racconto in cui scifi e fantasy si incontrano quasi con brutalità: Ampridatvir è una città in rovina, dove la gente vive tra edifici sbriciolati e residui ancora funzionanti di un’antica tecnologia.Strade mobili e ascensori anti gravità, il tutto governato da un mago e sottoposto al potere di due divinità nemiche e dei loro adepti: i Pansiu’s vestiti di verde e i Cadzal’s di grigio, forzatamente inconsapevoli gli uni degli altri, mentre gli eroi che cercano di spezzare la maledizione vestono di rosso, diventando vulnerabili a qualsiasi attacco.

Questa città doppia e i suoi abitanti, divisi da una barriera invisibile quanto insormontabile, si ritrovano con una veste simile sessant’anni dopo, nel romanzo di China Mièville The City & The City.
Le idee geniali non muoiono ma si evolvono: anche Beszel e Ul Qoma occupano lo stesso spazio fisico incrociandosi, sovrapponendosi e mescolandosi ma sono separate da un confine imposto dalla legge e alimentato dalle abitudini; i cittadini delle due città sono educati a non vedere cosa o chi si trova al di là di questa frontiera, di fatto estremamente reale pur non essendo materiale.

China Mièville ha un suo particolare rapporto con le città: New Crobuzon (Perdido Street Station) è un organismo vivo e mostruoso che condivide ed esaspera le differenze dei propri abitanti e riunisce come un amalgama deforme tante visioni alternative di quella Londra magica narrata anche in Un— Lun— dun (Il Libro Magico) e King Rat (Un Regno in Ombra).

La New Crobuzon di Mièville, la Ankh Morpork di Terry Pratchett o la Nar di John Marco non sono i primi “ecomostri” urbani dove si fondono scenari dickensiani e effetti di un “really good acid”: molto prima nasce il mondo di Nehwon (anagramma di No-When) di Fritz Leiber.
Pastiche di vicoli bui, bazar e templi governato dal capriccio di corporazioni ombrose, Lankhmar è un mix fetido e amorale di opulenza ordinaria ed esotica, una baraccopoli-metropoli dai tratti vittoriani confinanti con lo smog delle aree industriali, in cui il medioevale si specchia nel moderno.

Neil Gaiman

L’alter ego sotterraneo di Londra è evocativo anche per un altro grande del fantasy. Con Nessun Dove, Neil Gaiman non concede equivoci: ci sono porte nascoste che possono scaraventare il più anonimo degli abitanti della capitale in un mondo parallelo molto vicino ma molto diverso dall’originale.
La Sottolondra di Gaiman è un po’ come il regno di Alice oltre lo specchio: nessuna legge razionale sarà rispettata, la lotta per la sopravvivenza di eroi e non — eroi è molto più cruda di quella definita “normale”e non possiede il fiabesco umorismo di Carrol.
Gaiman sviluppa il concetto di Under Building mostrato da Will Insley nella sua Onecity: una città sotto la città, diversa e lontana da chi vive “sopra”, popolata dalla Gente dell’Oscurità e dai loro arcani rituali.

Le città del terzo millennio



Il passo successivo, dal moderno al postmoderno viene fatto sostanzialmente all’alba del terzo millennio: nel 2000 viene pubblicata Veniss Underground di, nel 2002 Mièville scrive The Tain e Paul de Filippo Linear City.

La Città Lineare si snoda lungo un’unica strada che separa letteralmente il Paradiso dall’Inferno. E’ composta da due parallele di blocchi abitativi separati da piccoli incroci, la metropolitana corre sotto tutta la sua indefinita lunghezza e i suoi confini (lineari) sono costituiti dal Fiume e dai Binari.
Al di là stanno “Il Lato Sbagliato dei Binari” — molto caldo — dove gli Ornitauri trascinano i peccatori, e “L’Altra Sponda” — più fredda e piena di nebbia — regno delle Ittiodomine che si occupano delle anime virtuose.

The Tain (Specchi Irriflessi) è ambientato in una Londra postapocalittica devastata dalla guerra, dove il nemico costituisce un eclatante omaggio a Borges: se l’immagine che vediamo dentro gli specchi è un essere di un’altra dimensione costretto a copiare ogni nostro aspetto e azione, che ci odia infinitamente per questo; se all’improvviso il confine si infrange permettendo a un esercito sterminato di queste creature di uscire cercando vendetta, cosa resta di una città e dei suoi abitanti? Rovine infestate da “imagos”, ovvero i “vampiri” — immagini incarnate in forma umana — o da residui di immagini: sciami di bocche, di mani e di denti che divorano i cadaveri.

Se poi la terra e l’umanità sopravvivono, magari spuntano fuori le città di Vandermeer.



In un racconto intitolato Three Days in a Border Town, l’autore racconta: Non c'è che una Città in tutto il mondo. Viaggia sulla Terra come promessa e come maledizione. Non possiamo che intravederla con la coda dell’occhio, perché in questa vita nessuno di noi può vedere completamente il divino.

Forse questa Città è Veniss (Underground), perché non è detto che le divinità siano buone. La Venezia di Vandermeer (il potere evocativo della regina della Laguna non conosce confini) è in un lontano futuro distopico fatto di città-stato isolate, dove l’ambiente naturale è completamente distrutto, la vita inizia in vasche artificiali e l’Arte è creata da Bioingegneri che manipolano una malta genetica fatta di carne e meccanica.
C’è un Overbuilding fatto di grattacieli scintillanti con centinaia di piani, finestre Holo-screen e caffè affacciati sull’acqua rosso ruggine sotto tramonti finti che celano la nebbia dell’inquinamento.
L’Underbuilding che sta sotto è una metropoli scura, un inferno dantesco pieno di rifiuti con i volti e i corpi di Jeronimus Bosch.
Siamo già ben oltre il cyberpunk, perché la clonazione, la cibernetica e la genetica sembrano quasi poteri divini. O diabolici.



Entità angeliche e demoniache vengono allo scoperto con Alan Campbell e Deepgate, città di metallo, pietra e ombre sospesa da un sistema di catene su un abisso senza fine.Sembra quasi di vedere le costruzioni sempre più alte che si arrampicano una sull’altra per offrire ai ricchi un posto al sole, di sentire il continuo scricchiolio della ruggine e il deterioramento delle strutture: una città in catene che si contorce e geme circondata da terre morte e deserti pieni di insidie, implosa su se stessa attorno alla cattedrale gotica di un antico culto dei morti dove si concentra il potere. Cosa ci può essere di più sconvolgente? Siamo arrivati al punto in cui il personaggio non solo è vittima del Luogo, ma ne è un’appendice. Il fascino della città è diventato violenza aperta, un insieme di effetti speciali che devono stupire come ologrammi futuristici senza più attinenza col reale. Dove è finito l’Uomo in tutto questo? Schiacciato fra razze superiori, distopie aliene e forze insormontabili, si nasconde in attesa di tempi migliori.
Il seme è forte, dicevano a Westeros.

Edited by Ary64 - 27/4/2010, 12:36
 
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