Sentire

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queenseptienna
view post Posted on 26/7/2010, 10:16




Titolo: Sentire
Fandom: Originale

Autore: queenseptienna

Rating:PG

Genere: romantico

Avvertimenti: post-atomico, robot

Info: per il compleanno di leliwen e yoruko89

Info2: questo racconto partecipa al concorso Blusubianco. Il primo pezzo in corsivo è l'incipit del concorso ed è opera di Giusi Marchetta, curatrice della Scuola Holden.

Info 3: per scrivere questo brano, mi sono sentita molto ispirata dopo la lettura "Così in terra come in cielo" di Don Andrea Gallo, di cui vi consiglio caldamente la lettura
Disclaimer: questa roba è mia, SOLO mia e se copi morirai di qualcosa di molto lento e doloroso.



La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio.
E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto.
Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.
Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.

Si sente un po’ sciocca per questo comportamento, sapendo bene che quella camicia in realtà non ha odore, ma è lei che lo immagina. Che profumo può avere una persona che in realtà non è umana? Come può sperare che quel telefono, di foggia antica nonostante sia l’anno 3480 e non più in funzione, squilli?
Forse avrebbe più senso azionare il sistema di chiamata che il Governo ha diffuso nel corso degli anni, così in quel modo avrebbe potuto vedere la sua immagine riflessa su un pezzo di plastica e sognarlo ancora un po’, struggersi per la sua assenza e sperare che quel robot avesse abbastanza anima da richiamarla, ma lei non era una che si perdeva in futili chiacchiere, era una donna pratica, che parlava di emozioni che sentiva a pelle e in cuor suo sapeva che sarebbero potuti passare anni, forse secoli, prima che il sistema di chiamata emettesse il suo raggio azzurrino e proiettasse quell’immagine maschile. O forse semplicemente non l’avrebbe mai fatto, ma a lei bastavano i ricordi e li riteneva preziosi.
Erano anni che frequentava il Centro di Incontri di Madame Y’za, dove qualunque anima disperata poteva entrare e accostarsi ad uno dei tanti robot o mutanti che stavano lì apposta per chi desiderasse compagnia. C’era chi andava per il sesso, chi per parlare e parlare allo sfinimento e avere davanti un essere dalle sembianze umane che annuisse compito ad ogni sfogo e sproloquio pur non capendo niente di quanto gli veniva detto. Poi c’era gente come lei, che andava lì per vedere Dominique e rimanere semplicemente ad ascoltare lui.
Dominique era un bellissimo robot di Classe R Serie Plus Numero 008473 e lei, Speranza, così si chiamava, se ne era innamorata perdutamente. Perché in quei gesti tranquilli, ma decisi, nelle sue espressioni vivide lei vedeva la vita, qualcosa che negli altri androidi non esisteva.
Aveva progettato lei la Classe R Serie Plus, nel suo laboratorio alla Free Robotics s.p.a, una multinazionale che aveva costruito il suo immenso palazzo con le linee di montaggio a Milano 4, ennesima città fantasma alle porte di una Milano originale che forse aveva solo il Duomo come ricordo di una civiltà passata.
Sorride adesso, allacciando scrupolosamente i polsini della camicia: al laboratorio i suoi ingegneri colleghi l’avevano spesso messa sull’attenti, ricordandole che era pericoloso frequentare i suoi prodotti, che era rischioso renderli così simili all’essere umano.
Ma cosa era rimasto dell’essere umano?
L’involucro forse perché di anime Speranza ne vedeva ben poche in una civiltà raggomitolata su sé stessa in un’Italia devastata che ancora faticava a riprendersi dalla Quarta Guerra Mondiale, nonostante facesse finta che andasse tutto bene e i ragazzi continuavano la loro movida nei piani alti di quei palazzi altissimi che non tenevano conto dei risultati della mutazione che i più sfortunati di loro ancora subivano nel sub-urbano, dopo due bombe atomiche che avevano spazzato via buona parte della geografia mondiale.
Ma oggi non ha voglia di pensare a tutte le brutture del mondo, oggi vuole solo sentirsi giovane e sciocca all’età di cinquantasette anni, vuole tornare a sognare e si ricorda il momento in cui, andata al Centro, si era seduta di fronte a Dominique e si era messa in silenzio, come sempre. Ma Dominique non aveva iniziato a parlare del suo stato di robot, del suo desiderio di essere umano, di voler comporre poesie e di non sentirsi un prodotto fallato, ma una ricchezza.
No, il robot per la prima volta le aveva accarezzato una guancia e poi l’aveva baciata sulle labbra e aveva detto – Tu sei la mia Speranza di uscire di qui un giorno ed essere un cantante, un poeta, un essere libero. Verrò ovunque tu voglia. -
Speranza era rimasta allibita e, nonostante si sentisse più una signora vicinissima ai sessant’anni che una ragazzina, aveva infranto tutte le regole dei benpensanti ed aveva portato fuori dal Centro Dominique. Avevano preso uno dei taxi azzurro cielo che sostavano spesso in quella zona che probabilmente, il cielo, l’aveva visto per l’ultima volta nel 2012, prima dello scoppio della prima atomica.
A Speranza non aveva mai fatto paura scendere nei bassifondi, lei era stata una di quelle persone che si era potuta permettere il vaccino contro la mutazione, così, nel tempo libero, si immergeva nel buio illuminato dalle luci tremolanti di vecchie insegne al neon e portava una buona parola di conforto ed un po’ di viveri a quella povera gente là sotto.
Lei era la signora Speranza per tutti, anche per i bambini che giocavano con un vecchio pallone fatto di stracci, che colpivano con i loro tentacoli scuri che avevano al posto delle gambe, avanzando lentamente nella sabbia sporca che c’era nei vicoli al posto dell’asfalto.
Si riscuote da quei pensieri e continua a ricordarsi di lei e Dominique che risalivano in verticale la linea dritta che sfrecciava verso l’alto, verso l’aria pulita ed artificiale di Milano 4, tenendosi la mano, lei una distinta signora in carne di cinquantasette anni e lui un eterno ventenne che avrebbe mantenuto quell’aspetto per sempre.
L’aveva portato lì, proprio in quella stanza e Dominique le aveva insegnato cosa fosse l’amore, non con il sesso, ma con le parole, le canzoni suonate con una vecchia Gibson che Speranza teneva nascosta sotto il pavimento in salotto. Era proprio buffo che a spiegarle una cosa del genere fosse stato un robot, qualcosa che non era mai stato umano, ma che forse lo era più di tutti, con quella sua strana sensibilità, quell’animo da viaggiatore della vita e del mondo.
Poi, al mattino, lui se ne era andato, lasciandole la sua camicia e seguendo quel folle e disperato bisogno di aria che non ha mai potuto respirare e libertà.
Lei non si sente male per questo, non soffre l’abbandono. Chiude le ante dell’armadio con cura, ha sempre avuto un debole per le cose vecchie che ricordavano il periodo da tra la Seconda e la Terza Guerra Mondiale, pur non avendo mai vissuto quegli anni.
Si avvicina al telefono e al sistema di chiamata, li osserva per qualche istante e poi si dirige in cucina, dove si metterà a mangiare e studierà gli appunti di genetica che le ha lasciato due giorni prima Samuele, il suo assistente.
Anche se quel telefono non squillerà, anche se su quel pezzo di plastica non apparirà la sua immagine, lei ha la speranza vera che Dominique abbia trovato quello che tanto cerca. Perché è fiera, perché quello è stato tra i suoi 04907984723423 figli della Classe Plus l’unico che ha avuto in dono qualcosa di eccezionale.
L’amore e la vita.
E non può che sentirsi felice.


FINE
 
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